Come per qualsiasi costrutto socioculturale, se si vuole analizzare scientificamente l’inferiorizzazione alla quale è stata soggetta la metà femminile nel genere umano fin dai tempi più antichi, da un punto di vista storico-filosofico non si può che andare a cercarne le cause alle radici. Vale a dire, in quel dualismo fondativo del pensiero occidentale che definisce l’umano per separazione.
In particolare, l’opposizione tra maschile e femminile avrebbe fornito le basi per stabilire una gerarchia tra i sessi, secondo la quale il maschile, superiore, avrebbe dovuto non solo dominare sul femminile inferiore, ma rappresentare il “neutro di riferimento” per definire ciò che è pienamente umano. In tal modo, si sarebbe imposta una concezione di differenza femminile che, come hanno sottolineato molte teoriche in varie epoche, è stata intesa come devianza rispetto al (supposto) neutro maschile. E proprio qui, pertanto, è possibile rintracciare la causa profonda dell’esclusione delle donne dai ruoli sociali e politici riservati ai maschi.
Eppure, questo destino non è stato accettato acriticamente e senza opposizioni. C’è chi, come la prima teorica dell’ecofemminismo Françoise d’Eaubonne (Parigi 1920-2005), ha insistito sul conflitto tra due modelli sociali e produttivi iniziato secoli fa, nello specifico con l’avvento della società di agricoltura e pastorizia (3500-2500 a. C.) basata sull’accumulazione, sullo sfruttamento illimitato della natura e sull’assoggettamento del corpo femminile (che avrebbe dovuto, da lì in poi, essere messo all’opera per fornire lavoratori, soldati e, in seguito, consumatori quanto più possibile). Il nuovo modello, a dominazione maschile, avrebbe soppiantato quello antecedente di caccia e raccolta, nel quale uomini e donne occupavano un ruolo e detenevano saperi ritenuti egualmente centrali, portando alla nascita di una nuova forma mentis definita “illimitista”, o “assolutista”, che si manifesta come sete implacabile di dominio: sul mondo non umano, sul corpo femminile, su altri gruppi umani ritenuti inferiori. Da lì in poi, la donna è stata messa da parte, assoggettata a un modello che non la rappresenta e la descrive come “naturalmente” secondaria e simbolicamente malvagia: una potenziale strega, o prostituta.
Con un’analisi per certi versi molto simile, più di recente Silvia Federici ha individuato questo momento di trasformazione, cruciale per il destino delle donne e delle minoranze escluse da quello che Val Plumwood (Terrey Hills 1939- Nuovo Galles del Sud 2008) ha definito il “paradigma padronale” riservato al maschio bianco eterosessuale, nella nascita delle enclosures, la privatizzazione delle terre comuni nell’Inghilterra del XVI secolo. L’espulsione delle donne da ambiti che prima di allora erano stati esclusivamente o parimenti di loro dominio (come l’erboristeria, un certo tipo di agricoltura e persino la medicina), istituzionalizzata in molte forme tra le quali Federici annovera la tristemente celebre “caccia alle streghe”, si sarebbe trasformata in una vera e propria guerra, simbolica e fattuale, nei loro confronti.
Con il linguaggio dell’analisi economica, è possibile evidenziare come queste dinamiche segnino ancora profondamente le nostre società. Un focus sulla violenza economica – che in Italia interessa il 21,5% della popolazione femminile – risulta per esempio fondamentale per far emergere le storture di un sistema culturale che tiene le donne strette tra due dimensioni alternative e conseguenti, come direbbe Virginia Woolf (Londra 1882- Ouse 1941): da una parte la dimensione domestica che troppo spesso rimane di stampo patriarcale e limita la libertà e le potenzialità femminili, dall’altra un mondo del lavoro che accetta un unico modello di governance e management, costruito sulle qualità cosiddette maschili e che si dimostra molte volte, dati alla mano, quello meno vincente.
Allo stesso modo, un’analisi dell’azione politica e della resistenza femminili nella storia delle rivoluzioni e dei movimenti per i diritti civili o la difesa dell’ecosistema, sulle quali si è taciuto per lungo tempo (come il salario femminile è stato, e troppo spesso è tuttora, considerato “salario di supporto”, così il contributo delle donne nei movimenti di rivendicazione sociale è stato inteso come sostegno temporaneo a una leadership maschile), mostra al contrario che nel corso dei secoli le donne si sono spesso trovate in prima linea nelle lotte. Un caso recente riguarda il loro contributo nella rivoluzione democratica iraniana, ma si potrebbero citare diversi altri casi, come quello del Rojava, nel cui contesto rivoluzionario si è andato strutturando il pensiero femminista Jineolojî.
Infine, anche la parola letteraria e poetica rappresenta una possibile via d’uscita da una lingua che, rispecchiando i valori culturali vigenti, distorce il femminile e che le donne devono pertanto ripensare, trasformandola in uno strumento di espressione di dissenso e fondazione di un immaginario nuovo. Un immaginario costruito dalle donne per le donne, ma che dovrebbe parlare a chiunque non si senta pienamente rappresentato dal nostro modello socioculturale e deve perciò essere di rottura – Breaking Tradition, scrive Janice Mirikitani (Stockton 1941- San Francisco 2021) – ma al contempo costruttivo: deve passare per l’educazione dei figli, come sottolinea Audre Lorde, dalla messa in discussione della figura maschile tradizionale (Lorna Dee Cervantes), dal rapporto con i valori dei propri genitori (Mirikitani) e con le istituzioni.