L’incauto relatore che, in una pubblica assemblea di trentini e altoatesini, dica che l’autonomia speciale riconosciuta alle due province andrebbe contenuta o addirittura eliminata perché costituisce una spina nel fianco del principio dell’unità nazionale, frutto del più deleterio e inaccettabile egoismo territoriale, sarebbe, come minimo, sommerso da una bordata di fischi. I più propensi al dialogo prenderebbero in mano il microfono per spiegare che, grazie all’autonomia, Trento e Bolzano, province tra le più povere del nord-Italia fino ad oltre la metà del secolo scorso, garantiscono oggi ai propri cittadini servizi nell’istruzione, nella sanità, nell’assistenza di qualità ben più alta rispetto a quella che riescono ad assicurare la gran parte delle altre regioni italiane.
L’esempio è molto utile perché chi, invece, negli ultimi anni, ha cercato di ottenere un po’ di autonomia in più per Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna si è visto accusare delle peggiori nefandezze: volete, si è detto, la «secessione dei ricchi» perché siete egoisticamente insensibili alle difficoltà di chi, ingiustamente, ha meno; volete distruggere le istituzioni della Repubblica, trasformando il Paese in un ridicolo Arlecchino; volete, questa è polemica recente, distruggere il sistema sanitario nazionale perché le migliori performance delle regioni del nord (il Trentino e l’Alto Adige hanno fatto importanti passi avanti anche in questo) finiranno per attrarre sempre di più cittadini del Mezzogiorno mettendo così in difficoltà le strutture sanitarie prese d’attacco senza che si migliorino quelle da cui si fugge.
Eppure, è l’articolo 116, terzo comma, della Costituzione a stabilire che «ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia» possono essere attribuite alle Regioni ordinarie che ne facciano richiesta nelle materie indicate nella medesima norma costituzionale. Le autonomie regionali possono pertanto ambire al trasferimento di funzioni statali qualora riescano a convincere il Governo, non sarà peraltro facile, di essere in grado di gestirle in modo più efficiente di quanto sia stato fatto fino ad oggi.
Non è sufficiente, tuttavia, che il riconoscimento di ulteriori competenze sia previsto in Costituzione perché ogni possibile percorso attuativo possa essere considerato legittimo e auspicabile. I detrattori dell’autonomia differenziata hanno da sempre sostenuto che non sarebbe ammissibile che alle Regioni a statuto ordinario siano attribuite, a differenza di quel che capita per le Regioni a statuto speciale, maggiori risorse di quelle necessarie per sostenere le spese collegate alle funzioni trasferite, in quanto, si afferma, diminuirebbero in tal modo le risorse spettanti alle altre. La tesi è discutibile per tutta una serie di ragioni che non possono essere approfondite in questa sede; in ogni caso, il paventato rischio è venuto meno, atteso che l’articolo 8, comma 2, del ddl Calderoli, di attuazione dell’articolo 116, terzo comma, Cost., approvato dal Senato e attualmente all’esame della Camera dei deputati, prevede che le eventuali entrate eccedenti i fabbisogni dovranno essere restituite allo Stato.
Destituiti di fondamento sono anche i timori secondo i quali i trasferimenti delle funzioni impattino in modo negativo sui livelli essenziali delle prestazioni (Lep) concernenti i diritti civili e sociali da garantire in modo uniforme su tutto il territorio nazionale, e ciò sia perché, come si è visto, l’attuazione dell’autonomia differenziata non consentirà, purtroppo, alle Regioni che si faranno carico di nuovi compiti di ottenere qualche risorsa in più, in tesi, a scapito di altri, sia perché l’articolo 4, comma 1, del ddl prevede che «il trasferimento delle funzioni […], concernenti materie o ambiti di materie riferibili ai LEP […], può essere effettuato soltanto dopo la determinazione dei medesimi LEP e dei relativi costi e fabbisogni standard, nei limiti delle risorse disponibili nella legge di bilancio» (con l’ulteriore avvertenza che se fossero necessari maggiori oneri a carico della finanza pubblica per poterli garantire, l’anzidetto trasferimento potrà avvenire solo successivamente al loro finanziamento).
Quindi, è ancora possibile considerare i tentativi di puntare sull’autonomia e l’autogoverno come il cattivo frutto dell’albero dell’egoismo territoriale?
La risposta è ovviamente negativa non solo per quanto si è appena detto, ma anche perché, secondo i dati Bankitalia relativi al decennio 2006-2015, tuttora attuali: i) il deficit annuo medio del Mezzogiorno (differenza tra risorse date e risorse ricevute) è pari al 17% del Pil dell’area; ii) il centro-nord ha invece fatto rilevare avanzi medi annui del 8,1% (con picchi, si fa riferimento al triennio 2013-2015, del 16,1% in Lombardia e del 10,9% in Emilia-Romagna). Il prevalente pensiero centralista, quello secondo il quale, malgrado qualsiasi contraria evidenza, lo Stato fa sempre meglio e la pianificazione centrale è sempre da preferirsi, tende però a sminuire non solo la rilevanza del consistentissimo trasferimento di risorse tra i territori (50 miliardi di euro l’anno secondo Svimez, ben di più secondo altri), ma anche a non considerare un’altra indiscutibile circostanza: il descritto assetto della ripartizione non ha generato una qualche riduzione del divario nord-sud che, anzi, continua ad aumentare in una situazione in cui anche le regioni settentrionali, zavorrate da una formidabile stretta fiscale, crescono, inevitabilmente, pochissimo.
Non è forse questo il male oscuro dell’economia italiana?