
La I Commissione (affari costituzionali) del Senato ha esaminato definitivamente le proposte di modifica della Costituzione riguardanti la elezione diretta del Presidente del Consiglio ed ha trasmesso la relazione e il testo del ddl costituzionale, in data 24 aprile 2024 alla Presidenza. Ad oggi, l’Aula ne ha già avviato l’esame avendo calendarizzato il 21 maggio la relativa discussione.
Come noto le due proposte una di iniziativa parlamentare, una di iniziativa del Governo suggeriscono di modificare la Costituzione per innestare rispettivamente o un modello analogo all’elezione diretta del presidente della Giunta regionale, o un modello di elezione diretta del presidente del Consiglio che, dopo la elezione, ricevuto l’incarico di formare il governo verrebbe, poi, nominato dal Presidente della Repubblica unitamente ai ministri per sottoporsi quindi alla fiducia parlamentare; ciò con alcuni ulteriori elementi di razionalizzazione, primo fra tutti la non applicazione della regola del simul stabunt simul cadent (ovvero con l’applicazione temperata di questo meccanismo). Il ddl licenziato verte proprio sulla seconda proposta. Il tema politico rivestirebbe maggior interesse se non risultasse “affogato” da altre note questioni di rilievo internazionale e nazionale e forse dall’assuefazione a proposte di riforma costituzionale. Ora va detto, che pur a fronte della diffusa condivisione sulla necessità di apportare, quantomeno, elementi di razionalizzazione all‘attuale disegno costituzionale - al fine di stabilizzare le maggioranze politiche ed evitare forme di transfughismo opportunistico che nulla hanno a che fare con l’esplicazione del potere dei parlamentare di interpretare gli “interessi della Nazione” (Art 67 Cost.) - permane una fortissima conventio ad escludendum, che si fa forza su motivazioni tecnico-giuridiche o politiche di conio del tutto differenziato. E così, se abbiamo assistito in questi ultimi trenta anni all’approvazione di modifiche di parti più o meno ampie della Costituzione, il modello dei rapporti tra organi di indirizzo politico e le modalità di investitura sono rimasti, sulla carta, immutati. Sulla carta, peraltro; perché la forma di governo ha subito significativi aggiustamenti ben visibili dopo la prima riforma della legge elettorale degli anni novanta e i contemporanei scossoni subiti dall’assetto dei partiti.
Orbene il dibattito relativo alle proposte è comunque vivo e, sovente, irrompe ogniqualvolta si affronta un tema relativo agli organi che sarebbero coinvolti o lambìti dalle proposte di riforma (come Presidente della Repubblica, Parlamento, Presidente del Consiglio e Governo).
Il medesimo è contrassegnato da questioni che appaiono complesse e di difficile soluzione. Ma non perché le proposte all’esame siano ampie o dotate di grande cifra di incidenza sulle disposizioni costituzionali (secondo taluni le proposte finirebbero solo per consolidare e completare aggiustamenti già introdotti in via di prassi) ma per ragioni, potremmo dire, fisiologiche.
Già solo descrivere una forma di governo comporta la considerazione di fattori differenziati - normativi politici, culturali, sociali e politici - che si sposano in una sintesi irripetibile e che pretendono una valutazione che si avvalga dell’ausilio di metodi appartenenti a differenziati saperi (giuridici, storci, politologici, sociologici…).
Ma quando si discute sulla qualità di una proposta di modifica della forma di governo il tema acquisisce una cifra di complessità per fattori di cui, sovente, non si ha immediata contezza. Innanzitutto perché la modifica avviene su un elemento del tutto parziale che, da solo, non è idoneo a ipotecarne gli effettivi esiti. La modifica ha sempre ad oggetto le disposizioni costituzionali e non può incidere direttamente sul sistema politico e sociale di contesto che alimenta e rileva sull’effettivo innesto di un nuovo modello organizzativo. Anzi la modifica (normativa) sconta i contenuti di una intrinseca contraddittorietà, poiché essa dovrebbe essere il prodotto del contesto che, fino a ieri, si crogiolava nel quadro vigente che si intende modificare.
La proposta, poi, integra una congettura; poiché si alimenta con la considerazione della sua presunta portata migliorativa. Ma questa circostanza arricchisce e complica il dibattito da valutazioni contrassegnate da opinabilità e non verificabilità.
Dall’altro, spicca il contenuto “politico” (nel senso nobile del termine) del dibattito e la necessità di confrontarsi con l’uso dei metodi della scienza più pertinente.
Al tempo stesso il dibattito è contrassegnato da ulteriori elementi di complicazione.
Il primo è la non sempre presente piena consapevolezza che la forma di governo sia, e resti un vestito tailor made difficilmente replicabile in luoghi e tempi diversi; con la conseguenza di dover essere dissuasi ad operare facili accostamenti ad altre esperienze.
Il secondo è integrato dalla varietà di motivazioni che si annidano dietro i contenuti esposti nel dibattito; motivazioni non sempre palesate che, invece meriterebbero di essere conosciute per decodificare i contenuti che vengono proclamati. Infatti, sono in sicura minoranza coloro che si pongono nella posizione genuinamente propositiva volta a migliorare la proposta o a emendarla dagli errori. Mentre, prevalgono interventi che sembrano avere – per le ragioni più varie – finalità destruens.
A fronte di tale quadro e non trascurando l’importanza del tema nell’ambito dei corsi di Istituzioni di diritto pubblico, si è ritenuto di organizzare un seminario con il Ministro per i rapporti con il Parlamento per completare l’offerta formativa degli studenti della Facoltà di Giurisprudenza attraverso la conoscenza diretta dei contenuti del ddl da parte dei proponenti della riforma.
Tanti infatti sono gli interrogativi: quali sono i contenuti effettivi del potere di nomina presidenziale? Perché e per l’intervento di chi cade il governo? A chi spetti effettivamente il potere di scioglimento delle Camere?