Editoriali

Speranza che chiarisce

Perché il Giubileo parla ancora alla società contemporanea

28 maggio 2024
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il professor Salvatore Abbruzzese
di Salvatore Abbruzzese
professore di Sociologia dei processi culturali e comunicativi all'Università di Trento

In un’epoca di secolarizzazione delle istituzioni e di laicizzazione degli stili di vita come quella che emerge nella fase attuale della modernità tardiva, l’indizione di un anno giubilare ha poche possibilità di essere percepito al di là delle ristrette cerchie di quei “praticanti devoti” implicati in un percorso di rinnovamento spirituale. Il pellegrinaggio verso la basilica di San Pietro e la visita di quest’ultima nel corso dell’anno giubilare – un gesto che, nel passato, comportando la “pienissima remissione dei peccati”, ha suscitato estesi entusiasmi – è da molto tempo circondato da una rispettosa indifferenza. La scelta di moltiplicare i luoghi nei quali sia possibile ottenere l’indulgenza plenaria non ha comportato sostanziali variazioni di interesse.

Il tentativo di imprimere un rilancio spirituale, capace di rinnovare l’impegno di fedeltà e di coerenza alla religione cristiana da parte del singolo credente, non può andare al di là dei confini marginali e puramente interiori che la dimensione religiosa oramai occupa nella coscienza di quest’ultimo. Manca, nella maggior parte dei casi, la dimensione della comunità, attraverso la quale il singolo credente possa, in qualche modo, elaborare e fare proprio quel desiderio di rinnovamento e di conseguente cammino spirituale che l’indizione dell'anno giubilare mira a suscitare.
Sostanzialmente privo di un’appartenenza ad una comunità parrocchiale per questi significativa o di un’esperienza associativa religiosamente formativa è abbastanza improbabile che il singolo credente possa registrare una qualsiasi eco nella propria vita interiore a seguito dell’annuncio mediatico, per quanto assicurato dai più potenti canali di informazione. Senza il rilancio esistenziale effettuato da un ambiente morale che questi condivide e ritiene significativo, la Chiesa e lo stesso carisma pontificio sono in sé insufficienti ad assicurare il recupero di una qualsiasi ricerca di riconciliazione della quale l’anno giubilare vuole essere la risposta.

Ciò detto il “Giubileo della Speranza” riscuoterà tuttavia un consistente successo per almeno due ordini di motivi.

Il primo è assicurato dalla rete stessa di comunità parrocchiali, associazioni laiche e movimenti religiosi che, presumibilmente, faranno il massimo per mobilitare i loro appartenenti. Se questa rete non rappresenta che una percentuale irrisoria della plebi dei, non di meno costituisce l’area della società civile maggiormente capace di una mobilitazione effettiva. Nel loro essere minoranza nel mondo secolare i praticanti devoti costituiscono infatti una presenza estesa e capace di muoversi efficacemente. Il più delle volte sono infatti guidati da un clero militante, cresciuto a partire dall’esperienza ecclesiale di Giovanni Paolo II, pastore e guida di un’ecclesia in movimento.

Il secondo motivo che garantirà il successo dell’anno giubilare è ancora più rilevante in quanto concerne la frattura che attraversa trasversalmente la modernità avanzata e che si manifesta ampiamente con la stasi della progettualità politica, della mobilità anagrafica e di quella sociale. Queste stasi, tra loro profondamente diverse e che vanno certamente ricondotte a processi differenti, corrispondono, nella loro sostanza ultima, alla presa d’atto di una serie di crisi sociali e culturali. Dalla sconfitta dei percorsi di sviluppo del terzo mondo, allo scontro tra gruppi etnici ed all’affermazione del fondamentalismo islamico da un lato e dal ristagno educativo, la stasi economica ed il declino demografico che regnano invece dentro il complesso culturale, economico e politico occidentale dall’altro prende sempre più consistenza l’immagine disincanto come unica lettura realistica.
Un tale universo societario non può non generare – come cita la lettera di Papa Francesco – una tristezza che si annida nel cuore, rendendo acidi e insofferenti”, dove si finisce per “accontentarsi di sopravvivere o vivacchiare”.

Questa crisi esistenziale denunciata dalla Spes non confundit costituisce la punta di lancia di un discorso religioso che finisce con il colpire il nodo essenziale della dinamica culturale contemporanea. Quest’ultima infatti si struttura molto più facilmente intorno ad un realismo laico e rinunciatario, che non in conseguenza di una progettualità politico-sociale. Ed è proprio l’universo secolare, quello cioè più lontano da qualsiasi promessa di salvezza, che l’ampiezza di un tale disincanto finisce per affermarsi: nella città dell’uomo è molto più facile fare il resoconto delle criticità che non quello dei successi.
Ora, proprio perché consapevole di giocarsi su di un piano teologico-esistenziale più che su quello politico-sociale, la Chiesa che punta sul recupero della speranza finisce con il porsi come l’unica alternativa percorribile: un vero e proprio “estremo concettuale” che, proprio per questo, può pretendere di superare i conflitti. Situare infatti la speranza nella “salvezza in Cristo” vuol dire porsi oltre gli ostacoli rappresentati da tutte le coriacee contraddizioni, le “strade chiuse” e i “no future” che, da decenni, strutturano la società contemporanea attraverso la lezione del realismo politico.

Affermare che la speranza non confonde ma chiarisce, legittimare il “mettersi in cammino…alla ricerca del senso della vita”, equivale per la Chiesa ad ergersi a maestra di vita non tanto recuperando uno spazio di credibilità politico-culturale, quanto ridando credibilità a ciò che è stato mestamente licenziato: la possibilità realistica di pensare al domani dentro la categoria della possibilità piuttosto che di quella del disincanto.
Non si tratta pertanto di rilanciare il superamento della povertà o di dare un contributo alla giustizia sociale nazionale ed a quella internazionale, quanto di recuperare quella posizione archetipica del soggetto che vede nella speranza una categoria dello spirito che gli è indispensabile. Sotto quest’aspetto la Chiesa cattolica e, in particolare, i diversi pontefici che si susseguono sulla cattedra di Pietro, si trovano ad occupare uno spazio inatteso e in una posizione sempre più centrale dentro la stessa società che si sviluppa al di là di qualsiasi dimensione religiosa.