Editoriali

Salutissimi

Commiato dall’Università di Trento

25 settembre 2024
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il professor Claudio Giunta
di Claudio Giunta
professore ordinario di Letteratura italiana

Tra pochi giorni lascerò l’Università di Trento, dove ho insegnato per ventidue anni. Nel congedarmi, ho pensato che mi sarebbe piaciuto lasciare scritto qualcosa, sperando che le cose che ho da dire non riguardino soltanto me. Ed ecco.

Per un po’ di anni – più di un decennio in realtà – sono stato il delegato alla comunicazione dell’ateneo: un delegato molto evanescente, per dirla con gentilezza, soprattutto perché la Divisione Comunicazione marcia tranquillamente con le sue gambe, senza bisogno di uno stratega che le dica cosa fare. Però in questi anni ho trovato alcuni slogan per fare pubblicità all’ateneo o a qualche iniziativa dell’ateneo che mi sembrano abbastanza felici, e uno di questi era «Una casa seria in una terra seria». Che in realtà è la traduzione di un verso del mio poeta preferito, Philip Larkin: «A serious house on serious earth it is». Larkin in realtà parlava di una chiesa, ma a me è parsa anche una buona definizione dell’università di Trento. La terra è una terra seria: non si può dire che i trentini non siano seri, semmai lo sono anche troppo: senza generalizzare, non è gente da cui uno si aspetti matte risate. Con gli anni ho finito però per affezionarmi a questa serietà, ho finito per considerarla una virtù più importante di altre virtù più appariscenti, e so che mi mancherà quando mi troverò in luoghi, diciamo, meno seri di questo.

Quanto all’università, anche conoscendone un po’ le magagne, direi che è sicuramente una «casa seria», un posto in cui credo sia bello studiare ed è stato senz’altro bello insegnare. Quando c’è Porte aperte, due o tre volte l’anno, io faccio sempre un discorsetto in cui esordisco dicendo «Se potete fare l’università, fatela, perché è una delle poche invenzioni umane che non ha controindicazioni, sono quattro o cinque anni impiegati a imparare cose interessanti in mezzo a persone interessanti: gli insegnanti, i compagni di corso». È un discorsetto in cui credo, credo che sia bene fare l’università in generale, ma è chiaro che un conto è farla in un posto così così e un conto è farla in una città e in un’università come Trento, una città e un’università in cui a vent’anni credo possa essere molto bello vivere.

Quindi credo che lo slogan fosse non solo azzeccato ma anche aderente al vero.

Io sono arrivato qui al dipartimento di Lettere, che allora si chiamava facoltà, più di vent’anni fa, e quando sono arrivato ero molto diverso da come sono adesso. Per dirla in breve, ero molto peggiore, sotto tanti punti di vista che qui non serve elencare: ed ero peggiore sia perché a trent’anni si è spesso ancora un po’ stupidi, sia perché venivo dalla Scuola Normale, che è un bellissimo posto, ma anche un posto che può darti una falsa idea di te stesso e del mondo, un’idea che poi è faticoso scrollarsi di dosso. Ecco, gli anni che ho passato a Trento credo mi abbiano aperto gli occhi, che mi abbiano umiliato non nel senso negativo della parola ma nel senso che mi hanno insegnato a capire meglio la realtà e a dubitare delle idee che avevo nella testa, che a volte erano idee balorde.

Dunque credo di essere migliorato, in questi anni, e questa mi pare sia una cosa non unica forse ma rara, nella vita professionale, perché lavorando si imparano, sì, delle cose, ma non capita spesso di cambiare carattere (in meglio, ripeto). Il merito di questo miglioramento è in parte mio, in parte delle persone che ho incontrato qui: in dipartimento, nell’ateneo, in città. Sono persone che sono felice di aver conosciuto, e che mi addolora adesso dover lasciare: e non dico solo le persone che per carattere sono state e sono più vicine a me, i chiaramente simpatici, ma anche quelle diverse da me, i non chiaramente simpatici, persino quelli con cui mi è capitato di avere delle frizioni o – raramente – delle liti. Ecco, tra le cose che dimentichiamo di lodare, quando parliamo dell’università, e dell’università di Trento, c’è questa: quali altri ambienti di lavoro o di vita sono così propizi al perfezionamento individuale?

In particolare, vorrei dire anche che il mio lavoro è stato non solo facilitato ma reso piacevole, persino allegro, da un gruppo di impiegati e impiegate amministrativi che ho sempre guardato con una certa incredulità, perché fatico a pensare che esistano altrove tante persone che fanno così bene il loro lavoro, e per bene intendo soprattutto il modo in cui il lavoro viene fatto: con intelligenza, buon umore, ironia. E vorrei dire che a Trento ho trovato ciò che raramente si trova una volta passati i trent’anni, e cioè un certo numero di amici-amici, di persone che, ne sono sicuro, mi saranno accanto negli anni che mi restano da vivere: alcuni sono qui dentro, alcuni sono fuori di qui, perché questa è un’università che consente di incontrare facilmente colleghi o collaboratori che studiano e insegnano cose diverse dalle proprie, ed è una cosa splendida, che non si trova facilmente altrove.

E poi naturalmente ci sono stati gli studenti. Io non credo di avere una speciale vocazione per l’insegnamento. Cioè, faccio lezione meglio che posso, ma potrei anche non farla: tra fare lezione e stare in biblioteca da solo a studiare preferisco la biblioteca. E non mi piace accompagnarmi ai giovani, non mi interessa molto quello che hanno da dirmi. Ma in questi anni a Trento ho incontrato dei ventenni meravigliosi, e tutti i dubbi che ho sulla mia professione (e ne ho) si sono dissolti davanti al maturare della loro intelligenza. Anche questo è un privilegio che ben pochi altri lavori concedono.

Quanto a ciò che insegno, e in generale a quelle che si chiamano ‘discipline umanistiche’, qualche anno fa ho scritto un libretto che s’intitolava E se non fosse la buona battaglia?, riflettendo sulla possibilità che noi – noi che ci ostiniamo a difendere la causa della buona musica, della buona letteratura, della storia, della conoscenza delle lingue e del pensiero – che noi ci stiamo sbagliando, e che abbia ragione il mondo come è, e abbia poco senso voler raddrizzare il legno storto dell’umanità con iniezioni di disinteressata cultura universitaria. In realtà io credevo e credo che questa sia la buona battaglia. Non so se sarà possibile vincerla, nel medio-lungo periodo, vincerla nel modo giusto, senza trasformarci al punto da snaturarci, cioè senza smarrire la ragion d’essere dei nostri studi, che non è – e se mi avete seguito unanimemente fin qui temo che adesso saremo meno unanimi – che non è quella di essere una terapia a beneficio dei viventi ma quella di richiamare in vita, cioè di dialogare con l’arte, il pensiero, il linguaggio prodotti da chi ci ha preceduti sulla Terra, cioè con i morti, proprio nello spirito della poesia di Larkin che ho citato prima, che finisce così:

Perché qualcuno sorprenderà sempre in sé
il bisogno di essere più serio,
ed è qui che porterà quel suo bisogno,
in questo posto che, gli hanno detto,
era propizio una volta al crescere saggi
anche solo perché tanti morti giacciono intorno.

A dire la verità sono abbastanza pessimista, e se dovessi scommettere scommetterei contro di noi; però può darsi che quelli che a me adesso paiono problemi insolubili siano solo increspature su cui i futuri abitanti di questa casa seria in una terra seria sapranno scivolare senza troppe difficoltà. Ma lasciando il futuro alle sue incognite, oggi volevo solo dire che vivere questi vent’anni insieme a voi è stato un privilegio: ho imparato un’infinità di cose, ho conosciuto persone interessanti, e mi sono anche molto divertito, ho sorriso e riso parecchio. Se incontrassi il genio della lampada gli chiederei tutte e tre le volte la stessa cosa: di farmi ricominciare tutto da capo.