Il tema dell’equilibrio di genere per definizione attraversa i confini delle discipline e dei saperi giuridici, ma non solo: coinvolge e mette in discussione convinzioni radicate, consuetudini, pregiudizi e preconcetti, modelli culturali spesso acriticamente quando non inconsapevolmente interiorizzati; mette in gioco l’idea stessa di società, di individuo nella società, di relazioni fra individui nella società, sfidandoci tutte e tutti, anche a partire dal linguaggio, ad uno sforzo critico e propositivo per una convivenza civile differente o quanto meno ripensata rispetto a quella che abbiamo ricevuto.
Ma questo vale più in generale quando ci interroghiamo sullo spazio, sul ruolo, sul contributo che il femminile può dare alla costruzione della società, intesa come comunità dei consociati: quando riflettiamo sulla necessità o sull’opportunità di una singolare considerazione delle specificità del femminile e delle sue potenzialità inespresse, nel senso di una valorizzazione che si traduca in interventi che arrivino a forzare le dinamiche e le relazioni sociali anche oltre il loro autonomo dispiegarsi, indirizzandole verso un obiettivo di reale parità nelle opportunità. Obiettivo nel quale ravvisare un arricchimento prezioso e ineludibile per lo sviluppo della società nel suo complesso e non già un’indulgente concessione fatta esclusivamente nell’interesse e a favore di una frazione dei consociati intesa come minoranza da proteggere.
In questa prospettiva, la ricerca non solo del dato di realtà ma del fondamento razionale che giustifichi il perseguimento dell’equilibrio di genere attraverso azioni positive, volte ad eliminare o quantomeno attenuare la sotto-rappresentazione delle donne in ambito politico, sociale ed economico rimanda anzitutto ad un principio egalitario: sulla base di una concezione secondo la quale le quote di genere rappresentano un valore in sé e sono fatte oggetto di tutela e promozione attiva proprio in quanto espressione del principio di eguaglianza in senso sostanziale e dei suoi corollari in termini di giustizia sociale di democrazia partecipativa.
Con particolare riguardo al governo delle imprese, a questa impostazione di stampo etico – costituzionale fa da contraltare una visione di matrice più economica ed efficientista, che ravvisa nella diffusa presenza femminile nei ruoli apicali delle società un valore solo strumentale, una occasione che consente di realizzare risultati più ragguardevoli in termini di corporate performance, con riferimento tanto alla ricchezza prodotta per i soci quanto all’attenzione per gli interessi degli stakeholders, in coerente e benefica connessione con l’obiettivo della sostenibilità delle imprese nel lungo periodo e la centralità dei fattori ESG. Il convincimento, peraltro, coinvolge più in generale gli effetti di una partecipazione agli organi societari che veda una diversificazione tra i componenti per genere, età, provenienza, estrazione sociale e livello culturale (la terminologia riflette la dualità contrapponendo gender equality a gender diversity).
Se n’è discusso nei giorni scorsi al Palazzo di Giurisprudenza nel convegno “Equilibrio di genere e governo delle imprese nella prospettiva della sostenibilità”.
La Direttiva europea di armonizzazione 2022/2381 (Women on Boards Directive), rispecchia nei suoi Considerando entrambe le prospettive: nell’ottica unionale la partecipazione delle donne agli organi di alta gestione delle società non rappresenta solo uno strumento per dare effettività e concretezza al fondamentale principio di eguaglianza ma altresì una misura atta a generare valore attraverso il miglioramento dell’efficienza e il conseguente potenziamento dei risultati aziendali.
Gli Stati membri sono chiamati ad adottare le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative necessarie per conformarsi alla WOBD entro il 28 dicembre prossimo: alcuni Paesi potranno però avvalersi della clausola di opt out, ovvero della possibilità di sospenderne l’attuazione in ragione del raggiungimento degli obiettivi in essa indicati. La scelta potrebbe riguardare anche l’Italia che, per effetto della proroga e del consolidamento della legge Golfo-Mosca che per prima aveva introdotto l’obbligatorietà delle quote di genere, ha visto la percentuale di amministratori donna nei Cda delle quotate salire dal 7% del 2011 al 43% al termine del 2022, con numeri in costante crescita.
Un risultato certo molto incoraggiante, nel quale leggere in filigrana un cambiamento culturale in atto, tuttavia ancora parzialmente incompiuto: di rado infatti le donne rivestono il ruolo di amministratore delegato o di presidente del Cda, e isolata è la loro presenza in ruoli manageriali di alta dirigenza. Il rafforzamento della partecipazione delle donne ai processi decisionali strategici delle imprese avrebbe dovuto avere una positiva ricaduta sull'occupazione femminile nelle aziende interessate dalle quote e sull'intera economia nazionale, ma questo non è avvenuto.
Per condurre l’equilibrio di genere ad un approdo che possa coniugare nella loro complementarità le istanze doverosamente egalitarie accanto alle legittime aspettative per la creazione di valore nel lungo periodo, occorre quindi un ulteriore cambio di passo, verso un intervento che si rivolga alla totalità delle imprese promuovendo politiche d’inclusione, e coinvolga dall’interno l’intera organizzazione aziendale.
La definizione che di femminismo dà la scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie è la seguente: «Un uomo o una donna che dice sì, esiste un problema con il genere così com’è concepito oggi e noi dobbiamo risolverlo, dobbiamo fare meglio. Tutti noi, donne e uomini insieme, dobbiamo fare meglio». Il diritto ha certamente aiutato, nella sua funzione maieutica e conformativa della realtà, a fare meglio, ma la strada è ancora lunga.