Editoriali

“Essere donna”: chi lo decide?

Il dibattito fra Corte suprema britannica, diritti di esistenza, femminismi

30 aprile 2025
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Alessia Tuselli
di Alessia Tuselli
sociologa, Centro Studi interdisciplinari di Genere, Università di Trento

Il 16 aprile scorso, la Corte suprema del Regno Unito, con decisione unanime, ha stabilito che la definizione legale di "donna” nell’Equality Act 2010 è un’accezione univoca: donna è chi è stata assegnata al femminile alla nascita.

Facciamo un passo indietro: nel 2018 il Parlamento scozzese approva il Gender Representation on Public Boards (Scotland) Act, provvedimento pensato per riequilibrare il genere nei consigli di amministrazione degli enti pubblici. La legge, che puntava a aumentare la partecipazione femminile in determinati contesti, definisce “donna” chi è legalmente riconosciuta come tale. Dunque anche le donne transgender in possesso del Gender Recognition Certificate (Grc), il documento legale britannico che rettifica quello anagrafico coerentemente con il genere di elezione, nel caso specifico assegnata al maschile alla nascita, che ha intrapreso una transizione di genere.

I primi ricorsi arrivano dal gruppo For Women Scotland (Fws), refrattario nel riconoscere le donne trans come donne e dunque critico rispetto alla possibilità che certi spazi riservati al genere femminile, possano essere spazi di diritto anche per le donne transgender. In generale, quella di Fws è una posizione presente nel dibattito internazionale, fra femminismi e non solo.

La sentenza del dicembre 2022 della giudice Lady Shona Haldane (Court of Session scozzese) sul ricorso intentato da Fws sottolinea che una persona in possesso del Grc, secondo la legge britannica, cambia legalmente sesso, perché ne viene riconosciuto quello di elezione. Di conseguenza, una donna transgender con Grc deve essere considerata legalmente una donna anche ai fini dell’Equality Act 2010.

Dopo la sentenza, Fws fa nuovamente ricorso sostenendo che sovrapporre “sesso” e “genere” porterebbe confusione legale e amministrativa, soprattutto nei contesti dove il sesso è da ritenersi centrale: quote di genere, spazi separati, statistiche sanitarie, violenza maschile contro le donne.

La controversia ha così attraversato tutti i gradi di giudizio fino ad arrivare alla Corte suprema del Regno unito, che ha esaminato la questione in termini di compatibilità dell’interpretazione scozzese con la normativa nazionale (Equality Act 2010 appunto), ribaltando la decisione di Haldane ed escludendo di fatto le donne transgender dalla definizione giuridica di “donna”. La sentenza ha stabilito che il sesso, nella legislazione britannica, è immutabile e legato all’assegnazione di nascita.

La pronuncia è stata accolta con entusiasmo non solo da Fws, ma anche da altri gruppi che hanno sostenuto l’iter del ricorso. Sex Matters e Lgb Alliance, hanno definito la decisione una vittoria per la "verità biologica" e per la "protezione degli spazi femminili". Di contro, organizzazioni come Amnesty International e Stonewall Uk hanno parlato di “un passo indietro nei diritti umani”. Secondo la British Medical Association la distinzione tra sesso e genere che fa la Corte è “scientificamente infondata”, dato che la scienza ha superato la visione binaria che si può avere della biologia e ha mostrato che fra maschile e femminile assegnati alla nascita c’è più uno spettro che una dicotomia.

La sentenza ha riacceso il dibattito anche in Italia, dove coesistono posizionamenti (anche femministi) differenti. La filosofa Adriana Cavarero su la Repubblica ha portato una prospettiva presente da tempo a partire dal femminismo della differenza: «Parto dai dati di fatto. I corpi ci definiscono […]. Le persone trans non possono pretendere di definire cosa sia il femminile». Commenti in direzione opposta quelli di altre correnti femministe (e transfemmiste) e delle associazioni lgbtqi+, che sottolineano i rischi discriminatori e di marginalizzazione: le donne transgender potranno essere legalmente escluse da spazi o servizi come bagni, reparti ospedalieri o centri antiviolenza.

Vorrei soffermarmi sul portato simbolico di questa sentenza, sui significati socioculturali che ritengo preoccupanti.

I venti essenzialisti che soffiano dal Regno Unito (così come dagli Stati Uniti* riportano la categoria “donna”, la sua identità, ad un destino di “natura” legato a cromosomi, genitali, ormoni. Mi pare che questa retorica, ora legge nel Regno Unito e negli Usa, ci ricacci, di forza, a quello che, come donne, ci hanno raccontato per secoli: che la biologia era il nostro destino.

A partire dai nostri corpi ci erano precluse molte cose, per il “nostro bene” e quello della specie. Studiare, votare, lavorare, praticare sport, intraprendere carriere lavorative prestigiose. Genitali e lettere dei cromosomi hanno giustificato l’esclusione delle donne dagli spazi pubblici, dai luoghi di potere. La società tutta ne paga ancora oggi le conseguenze.

Poi le lotte per i diritti, intere genealogie di femminismi, aree disciplinari, ci hanno liberate, insegnandoci, tra le altre, due cose: che la biologia non è un destino, non è binaria né dicotomica. Che quello che siamo nel corpo non determina inequivocabilmente quello che possiamo fare. Che i diritti sono in addizione e se la categoria “donna” diventa uno spazio più ampio, che prescinde dal determinismo del corpo, questo non toglie diritto ad altri corpi. Non si cancella il “soggetto donna”, non si sostituisce né si oscura (chi decide poi chi è il soggetto donna? Chi decide che è al singolare?).

Semplicemente questo “soggetto” smette di essere un confine sorvegliato a vista, un oggetto di dibattito pubblico parlato e non parlante, per diventare uno spazio contemporaneo di diritto, di visibilità, di riconoscimento. Uno soggetto identitario plurale, che autodetermina se stesso, inscritto nel corpo, non determinato dal corpo.

 

* Il riferimento è all’ “Executive Order on Defending Women From Gender Ideology Extremism and Restoring Biological Truth to the Federal Government" firmato dal presidente Trump, che definisce ufficialmente e legalmente "uomo" e "donna" solo in base al sesso assegnato alla nascita e impone che documenti federali (passaporti, atti di nascita, ecc.) riflettano esclusivamente il sesso definito come “biologico” e non l’identità di genere.