Editoriali

Punire il femminicidio

Introdurre un nuovo reato? Una proposta con troppi aspetti critici

3 giugno 2025
Versione stampabile
la dottoressa Elena Mattevi
di Elena Mattevi
ricercatrice di Diritto penale all'Università di Trento

Per quale ragione, a fronte di episodi di cronaca sconvolgenti, che vedono donne uccise molto frequentemente da uomini, un gruppo di penaliste arriva a esprimersi in modo critico nei confronti di un disegno di legge (n. 1433 del 31 marzo 2025) che prevede l’introduzione del reato di femminicidio, come fattispecie autonoma, punita con l’ergastolo?

Le ragioni sono diverse e abbiamo provato a spiegarle brevemente in un comunicato, che è stato ampiamente ripreso dalla stampa anche nazionale. In sostanza, riteniamo che questo nuovo reato sia inutile se non addirittura, per certi aspetti, controproducente. Procediamo con ordine.

Come è noto a tutti, nel nostro ordinamento esiste già il reato di omicidio, senza distinzioni di genere dal lato della persona offesa, e il tasso di omicidi è tra i più bassi d’Europa e del mondo. L’omicidio può essere aggravato, qualora venga commesso nel contesto di relazioni familiari o affettive (art. 577 c.p.) o di altre manifestazioni della violenza di genere (art. 576 c.p.), e quindi proprio nella maggior parte dei casi che riconduciamo alla nozione di femminicidio. È bene ricordare che in questi casi la pena prevista per l’omicidio aggravato è già quella dell’ergastolo, una sanzione che peraltro continua a sollevare in una parte della dottrina – in me per prima – degli interrogativi in merito alla sua compatibilità con la finalità rieducativa della pena di cui all’art. 27 comma 3 della Costituzione. Alcune sentenze pronunciate di recente per casi notissimi di femminicidi hanno applicato proprio la pena dell’ergastolo. Non possiamo quindi affermare che ci sia una lacuna di tutela di fronte a questo complesso fenomeno.

Temo che la proposta di introdurre una fattispecie autonoma si inserisca piuttosto in una tendenza che suscita una certa preoccupazione: quella per cui si assiste a campagne mediatiche ad alto tasso emotivo che ingenerano preoccupazione nei cittadini, rispondendo alle quali si ricorre al diritto penale come ad una sorta di “ansiolitico sociale”, per utilizzare un’efficace espressione di una collega, senza nessuna preoccupazione per l’impatto dell’intervento normativo in termini di efficacia ed effettività.

Possiamo pensare davvero, per esempio, che un uomo lasciato dalla sua compagna, incapace di accettare o gestire il rifiuto e l’abbandono e che non sia ancora riuscito ad interiorizzare i valori della libertà della donna o più in generale della persona diversa da sé, si faccia dissuadere dal commettere un reato di omicidio – o di femminicidio, in ipotesi di accoglimento della proposta di riforma – visto che la pena prevista potrà essere sempre quella dell’ergastolo e non più invece quella della reclusione di minimo ventuno anni, aggravabile comunque fino all’ergastolo in presenza delle circostanze sopra ricordate?

La domanda è retorica, ma una prima risposta la si può trovare nelle condotte di molti uomini (circa un terzo) che si rendono responsabili di questi femminicidi: si tolgono la vita, o tentano di farlo, dopo aver ucciso la donna.

Le cause del fenomeno sono complesse e devono essere indagate con maggior attenzione, per poter essere combattute.

Non ritengo altresì, ma questa è una mia opinione personale – che condivido solo con parte della dottrina e non necessariamente con le firmatarie del comunicato –, che si giustifichi un trattamento deteriore dell’uomo rispetto alla donna, quando la matrice o il contesto di un certo comportamento violento sia comunque di carattere discriminatorio, espressione di dominio o di possesso nei confronti della vittima.

La nuova fattispecie presenta poi, inevitabilmente, dei problemi tecnici, connessi innanzitutto all’intrinseca indeterminatezza della nozione di femminicidio, che affonda le sue radici nella riflessione criminologica. Il termine femicide è stato coniato dalla criminologa femminista Diana Russell per indicare le uccisioni delle donne da parte degli uomini “per il fatto di essere donne”.

Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, nella nozione di femminicidio rientrano quindi solo una parte degli omicidi ai danni delle persone di sesso femminile, ma è molto difficile riuscire a tradurre in una fattispecie penale, in modo chiaro e preciso, un concetto complesso come questo ed esprimere il disvalore di questa particolare forma di uccisione di una donna.

Cosa vuol dire – come leggiamo nel testo dell’articolo che si propone di introdurre – che «il fatto è commesso come atto di discriminazione o di odio verso la persona offesa in quanto donna o per reprimere l’esercizio dei suoi diritti o delle sue libertà o, comunque, l’espressione della sua personalità»? I termini utilizzati in una fattispecie penale dovrebbero essere suscettibili di essere afferrati sul piano processuale, per le connesse e rilevanti esigenze di prova. Diversamente, potrebbe essere molto più semplice per un pubblico ministero valorizzare, ai fini della qualificazione del fatto, elementi relazionali più agevolmente dimostrabili e già sufficienti per aggravare la pena e quindi chiamare l’imputato a rispondere di omicidio comune e non di femminicidio. Su questo piano restano quindi delle difficoltà.

Tuttavia, in conclusione, ciò che preoccupa di più è che l’introduzione del reato si inserisce in una riforma che si chiude con l’ennesima clausola di invarianza finanziaria, vale a dire in una riforma che deve essere realizzata a costo zero. Temo che sposando una logica meramente punitiva, con l’illusione di aver trovato finalmente una buona soluzione, si finisca per dimenticare l’obiettivo principale: quello di lavorare sulle politiche di prevenzione, provando davvero ad intercettare in tempo e ad evitare queste tragedie che rappresentano una delle espressioni più gravi delle diverse forme di discriminazione e violenza che caratterizzano in misura sempre più preoccupante la nostra società. Gli investimenti da fare sono cospicui, in termini economici, relazionali, affettivi e, naturalmente, culturali.

 

A questo link il documento elaborato dal gruppo di penaliste.