
C’è un fenomeno ricorrente che caratterizza le materie all’intersezione tra scienza, bioetica e diritto: la rilevanza che assumono i casi giurisprudenziali. Non si tratta di un aspetto esclusivo di questi ambiti: le vicende giudiziarie devono sempre essere oggetto di analisi, poiché la giurisprudenza contribuisce in modo sostanziale all’individuazione della disciplina giuridica di una determinata materia. L’importanza delle sentenze è ancora più evidente quando emerga una problematica nuova, che il legislatore non abbia ancora disciplinato, poiché le prime richieste di riconoscimento arrivano di fronte ai giudici. Quello che però sembra caratterizzare in modo particolare gli ambiti eticamente controversi è il ruolo che le sentenze finiscono per svolgere, diventando l’unico punto di riferimento a fronte dell’inazione del Parlamento, che a volte perdura per anni.
Il fine vita rappresenta bene questo fenomeno: casi personali assumono rilevanza pubblica, giungono alle corti che si trovano a statuire su casi concreti in mancanza di disciplina legislativa, diventando poi punti di riferimento in materia, sino all’arrivo di una legge. Questo è stato ad esempio il percorso sfociato nella legge n. 219 del 2017, relativa al consenso informato e alle dichiarazioni anticipate di trattamento, legge intervenuta esattamente dieci anni dopo la sentenza della Corte di Cassazione sul “caso di” Eluana Englaro, che per anni è stata il punto di riferimento in materia.
L’introduzione del suicidio assistito in Italia sta seguendo un percorso simile, essendo stato oggetto di una sentenza della Corte costituzionale, intervenuta nella vicenda dell’esponente politico Marco Cappato, che aveva aiutato Fabiano Antoniani ad accedervi in Svizzera. La Corte costituzionale, dopo un’ordinanza (207/2018) in cui invitava il Parlamento ad intervenire, ha individuato in una successiva sentenza (242/2019) i criteri in base al quale l’aiuto al suicidio non è penalmente rilevante («proposito di suicidio autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente»).
Il Parlamento, ad oggi, non è intervenuto. Al “caso Cappato” hanno così fatto seguito una serie di altre vicende giudiziarie: è sufficiente visitare i siti delle associazioni attiviste in quest’ambito, per scorrere i numerosi “casi di …”: Antonio, Fabio, Gloria, Martina…nomi veri e di fantasia accomunati dalla necessità di ricorrere all’intervento giudiziale per poter porre in essere quanto previsto dalla pronuncia 242 del 2019. In tutte queste pronunce stanno prendendo forma le applicazioni concrete dei requisiti, definendo tempi, modalità e criteri. Anche la Corte costituzionale è intervenuta nuovamente, chiarendo la portata della necessità dei “trattamenti di sostegno vitale”.
La Consulta interverrà prossimamente anche per chiarire se si possano disciplinare con legge regionale le condizioni previste dalla sentenza 242 del 2019, in attesa dell’approvazione di una legge statale: il Governo ha infatti impugnato la legge con cui la Regione Toscana si era mossa in questa direzione. Le motivazioni del ricorso sono articolate e complesse, ma si possono riassumere nell’incompetenza delle Regioni ad intervenire in questa materia. La Corte costituzionale potrà chiarire anche questo punto.
È invece di questi giorni la notizia della discussione parlamentare di un disegno di legge, proposto dalla maggioranza.
Al di là delle scelte politiche, sussistono però anche alcuni punti fermi.
Il primo è la necessità che questa legge sia approvata; un fatto che nessuno pare mettere in discussione: dalla Corte costituzionale, agli attivisti, alla maggioranza delle forze politiche. Si diverge sul contenuto ma della legge, non sulla sua necessità.
In secondo luogo, il percorso tracciato dalla Corte va tenuto presente: pur individuando un nucleo minimo in materia, le diverse pronunce hanno fornito elementi soprattutto in merito ai fondamenti costituzionali in gioco, che rappresentano il limite della discrezionalità politica, ciò su cui la Corte stessa potrebbe essere chiamata a pronunciarsi in futuro.
Per esemplificare: gli organismi chiamati a verificare la sussistenza dei criteri per poter accedere al suicidio medicalmente assistito saranno oggetto di diverse possibili definizioni, in merito a composizione e compiti. In quest’ambito, sussiste la discrezionalità legislativa, che tuttavia non potrà comportare ostacoli nell’esercizio di quelli che la Corte costituzionale ha individuato come diritti fondamentali. Ancora: la praticabilità del suicidio assistito all’interno delle strutture pubbliche, è oggi oggetto di un dibattito in cui sembrano sovrapporsi il piano simbolico dell’impossibilità di vedere il suicidio assistito come un diritto e la praticabilità dello stesso all’interno delle strutture stesse.
Si tratta naturalmente delle prime battute di un dibattito lungo (come è fisiologico), ma quello che sicuramente la legge dovrà garantire sarà fornire un inquadramento generale, chiaro ed organico, che eviti la necessità di un profluvio di ricorsi per chiarirne la portata e garantire l’attuazione di ciò che è stato previsto dalla Corte costituzionale. La legge, quindi, dovrà garantire che non si debba più assumere a riferimento il “caso di…” per capire la disciplina concreta del fine vita in Italia.