
“Sarò breve” è la menzogna che spesso rifiliamo a un pubblico addestrato a temere le lungaggini. Giustificato, questo timore, perché è tanto più facile abusare dell’attenzione anziché guadagnarsela.
Mega biblion, mega kakon, diceva del resto Callimaco. “Un volume grosso è una grossa scocciatura”. Pare di vedere, in questo precetto, un’ammonizione, tanto ironica quanto sapida, contro la pretesa di quei grafomani che provavano a imitare i grandi poeti del ciclo troiano, Omero in primis, il cui grande oceano letterario era una conquista irripetibile. Tentare di nuovo quell’impresa sarebbe equivalso a impaludarsi in acque troppo vaste per essere navigate e controllate. Meglio, dirà Callimaco e diranno i poeti latini di età classica, dedicarsi ad acque più sottili e limpide, e meno trafficate. Meglio scrivere meno.
Ci sarebbe però in questo un errore o un’omissione sostanziale se, pure in una simile esigenza di brevità, non si aggiungesse un dettaglio sulla qualità della brevità. Sulla dimensione cioè della densità che è diversa, ci insegnano i fisici e i sociologi, da quella dell'estensione e del volume. La brevità negoziata dalle poetiche classiche e da quelle che poi ne sono state influenzate non solo infatti non nega al proprio interno un’articolata complessità, ma anzi la rivendica. Se la brevità è un plusvalore estetico ciò è perché nasconde, nel poco del suo visibile, il tantissimo del suo presumibile. La tensione non è tanto quella quantitativa tra il dire meno e il dire più, ma è tra il diffondersi e il concentrare, tra stratificazione e compattezza, tra la lunga storia della tradizione e la folgorazione della novità.
Nell’antropocene più recente siamo abituati a una ricerca tecnologica che produca contenitori d’informazioni al contempo sempre più piccoli e sempre più capienti. Trovo in questo paradosso del mondo fisico e digitale un buon parallelo per quell’empito che in letteratura ha portato a una forma come quella dell’epigramma, che tutto sommato ha cominciato a svilupparsi nell’ottica proprio di fare il massimo possibile da un punto di vista testuale nei limiti fisici del supporto materiale. L’epigramma è stato infatti una forma poetica mutevole ma la cui etimologia parla di una sua apposizione fisica, una sua iscrizione sui materiali duri di cui, per esempio, erano fatte le steli funerarie che del defunto dovevano non solo conservare il nome ma propagarne la memoria, intesa come complesso, articolato, inesausto costrutto di identità e individualità. E l’epigramma funebre impersonava la voce di chi invece gli sopravviveva e lo stile della sua stessa memoria, che è ad un tempo selettiva ma anche onnipotente, perché eterna in poche parole la vita del defunto, e il proprio ricordo poetico – e la conoscenza che i pubblici del futuro continueranno così per sempre ad averne. Del resto non va mai dimenticato quell’aforisma (forma anch’essa massimamente dedicata alla compressione) che viene attribuito a Ippocrate: ars longa, vita brevis. Ma non dovrebbe a questo punto essere più un paradosso realizzare che, nella storia dell’epigramma e delle forme brevi, è vero anche il contrario: ars brevis, vita longa.
Da questi inizi, che accomunano molte delle esperienze di memorializzazione nella storia dell’umanità, viene però dato specifico avvio a una tipologia testuale formalizzata, metrica e intrinsecamente letteraria. E quanto più la tecnologia dell’epigramma verrà raffinata, tanto più l’epigramma stesso diventerà una forma poetica riconoscibile, riconosciuta e quindi persino un genere letterario, tale da dare ragione agli autori di specializzarvisi e scrivere intere raccolte di epigrammi; tale anche da permettere ai lettori di farne antologie rappresentative di più voci autoriali, spesso con l’interesse di apprezzarne più che gli specifici contenuti piuttosto proprio quei caratteri formali di stilizzata concisione, di fulmineità, che da bisogno fisico si è fatto vanto intellettuale, da bug è diventato feature, da perimetro è diventato orizzonte.
Con Marziale, l’autore latino che più di tutti rappresenta il genere e fa da cerniera tra la grande produzione greca e quella che da Marziale, prima in latino e poi nelle varie lingue nazionali (e poi ancora in neo-latino e, talora, in neo-greco), si diffonderà nell’Europa post-classica. È lo stesso rischio che si corre con un buon vino o un buon whisky, che per essere apprezzati nelle loro singole note richiedono una centellinata degustazione. Infatti, esiste la possibilità di un’ignorante ubriacatura. E talora mi chiedo se la colpa non sia anche di quell’arroganza tipica del sommelier, o del professore universitario, che nella pur espertissima decantazione non si pongono sempre quel nostro problema iniziale, che cioè l’attenzione va conquistata. Molto più bravi in questo senso sono oggi gli influencer e i creatori di media brevi per il consumo immediato, bulimico, irriflesso. Sappiamo tutti che un video su TikTok ha più speranze d’essere apprezzato, con un visibile like, da un pubblico cui però viene somministrato nemmeno il whisky, ma solo l’ubriacatura. E se il potenziale di densità e sofisticatezza dipende dall’intenzione autoriale, c’è da chiedersi quale debba essere il fine di quello che comunichiamo oggi, e che veniamo chiamati a comunicare sinteticamente, epigrammaticamente, ma – mi chiedo appunto – con quale previsione di fruizione? Con quale pubblico, quale readership, quale apprezzamento, e soprattutto quale esito culturale?
Noi, volenti o nolenti, viviamo tra i fulmini. Dobbiamo però capire come usarli per galvanizzare e non bruciare. La nostra sintesi deve mirare alla folgorazione ma non all’elettrocuzione. E dobbiamo assicurarci che la nostra operazione – che sia didattica, che sia creativa, che sia artistica o latamente comunicativa – venga capita fulmineamente ma anche nei suoi lunghi non detti, e che in questo modo venga ricercata e possa svilupparsi restando sì rapida, sì sintetica, ma non effimera.
*Il professore Sandro La Barbera è co-organizzatore con Alessandra Di Ricco e Andrea Comboni del convegno Fulmen. Epigramma e altre brevità




