Dopo la prima, storica foto scattata nel 2019, un anno fa l'emozione si è ripetuta e stavolta più vicino a noi. Il 12 maggio di un anno fa è stato fotografato un buco nero supermassicio al centro della nostra galassia, che è stato battezzato Sagittarius A*. Catturare quel fenomeno unico e ancora per molti aspetti misterioso è una conquista della scienza che fino a qualche anno fa sembrava impossibile. A riuscire nell'impresa è stata la rete internazionale della Event Horizon Telescope (EHT) Collaboration, che ha sfruttato diversi radiotelescopi altamente sensibili sparsi su tutto il globo terrestre. UniTrento Magazine ha chiesto all'astrofisica Mariafelicia De Laurentis dell'Università Federico II di Napoli e dell'Infn come vice responsabile della collaborazione EHT, di ripercorrere il dietro le quinte della "la foto del millennio".
Professoressa De Laurentis, ci racconta le emozioni che hanno accompagnato quel momento?
«Non è facile descrivere quello che si è provato. È stato emozionante vedere concretizzate le ricerche di anni, frutto del nostro lavoro fatto di sinergia, cooperazione, collaborazione e tanto sacrificio. Sono sensazioni indescrivibili. Posso dire che l’emozione che ho provato per esempio nel momento in cui eravamo riusciti a visualizzare, a rendere visibile l’invisibile (il buco nero), è paragonabile alla nascita di un figlio, ad un concepimento. Le idee sono parte di noi, crescono dentro di noi e si concretizzano attraverso il lavoro di mesi e anni di ricerca: ecco perché la paragono a una nascita».
Come si può raccontare un buco nero? Perché è così difficile da immortalare?
«Una delle previsioni più eccitanti della teoria della gravitazione di Einstein sono i buchi neri, regioni dello spazio tempo in cui il campo gravitazionale è così forte che qualsiasi cosa giunga nelle vicinanze viene attratta e catturata senza possibilità di sfuggire all’esterno. La superficie limite che delimita la regione di non ritorno è chiamata orizzonte degli eventi.
Si può paragonare un buco nero ad un corpo celeste, caratterizzato da una grande massa, che si contrae, aumenta la sua densità e crolla sotto il proprio peso concentrando la propria massa in un unico punto detto, appunto, buco nero. In generale, si formano dal collasso gravitazionale che talvolta accompagna la morte di una stella. Paradossalmente, i buchi neri sono gli oggetti più semplici da descrivere. Sono sufficienti due sole quantità: la massa e la velocità di rotazione. Tutte le informazioni sulla complessa struttura della stella da cui hanno avuto origine, per esempio sul tipo di materia che la componeva, sulla forma o sul campo magnetico scompaiono non appena essa attraversa l’orizzonte degli eventi.
È difficile immortalarli perché non si vedono (per questo si chiamano buchi neri) se non in condizioni particolari. Uno dei modi per studiarli è osservare gli effetti gravitazionali di oggetti che orbitano nelle loro vicinanze come è stato nel caso dello studio delle stelle S-stars al centro della nostra galassia. Studio per il quale i ricercatori hanno ricevuto il Nobel nel 2020. Un altro modo per poterli vedere, è quello che ha permesso alla nostra collaborazione di poterli osservare, è quello di studiare la materia che si accumula e surriscalda intorno ad essi: stelle, gas o polvere, che viene attirata verso il proprio orizzonte degli eventi.
Quando la materia entra nel buco nero, lo fa ad una velocità altissima. E si surriscalda emettendo radiazioni in tutto lo spettro visibile. Questo fenomeno rende i buchi neri attivi tutt'altro che neri. In alcuni casi li rende addirittura molto luminosi, come nel caso dei quasar e dei nuclei galattici attivi».
E come si riesce a fotografarlo?
«Poiché i buchi neri non emettono luce, l'obiettivo è quello di visualizzare la loro "ombra" o "silhouette" causata dalla deviazione della luce in condizioni di gravità estrema. Per vedere al centro di una galassia e arrivare quindi a visualizzare un buco nero dobbiamo andare ad alte frequenze dello spettro elettromagnetico e a piccole lunghezze d’onda. Lo studio mediante radiotelescopi sopperisce all'osservazione ottica resa difficoltosa dalle nubi di polveri e gas che circondano il centro della galassia e le vicinanze di questi imponenti oggetti. EHT è uno strumento fondamentalmente nuovo e imbattibile al momento e con il più alto potere risolutivo angolare che sia mai stato raggiunto in astronomia. Un livello di dettaglio tale da permetterci di leggere una pagina di giornale a New York comodamente da un caffè sul marciapiede di Napoli».
Quali sono stati gli ostacoli che avete incontrato?
«Nonostante Sgr A* sia più vicino a noi rispetto a M87, la nostra visuale del buco nero è oscurata da gas plasma e polvere, che disperdono le onde radio provenienti dalla regione attorno al buco nero. Noi siamo in una posizione di svantaggio perché ci troviamo nella stessa galassia, posizionati su uno dei bracci della spirale e tra noi ed esso c’è di tutto.
Un’importante complicazione dei dati di Sgr A* è che la sorgente è variabile su tempi scala dei minuti. Per cui mentre la osserviamo al telescopio, la sorgente cambia sotto i nostri occhi e questo complica di molto l’analisi dei dati. Abbiamo prodotto milioni di immagini con diverse combinazioni di parametri per i vari algoritmi di imaging, usando grandi infrastrutture di calcolo. Questo spiega non solo il tempo impiegato per la pubblicazione – cinque anni dopo l’acquisizione dei dati – ma l’apparenza quasi mossa e più sfocata della foto rispetto a quella di M87, perché si tratta di una media delle tantissime e diverse immagini prodotte».
Come si fa a lavorare bene insieme quando si ha a che fare con scienziati e scienziate collegati da diverse parti del mondo?
«Partiamo dal presupposto che se si vuole fare scienza di livello la si deve fare in gruppo, gestendo persone diverse sia per cultura che per background scientifico. Un progetto di ricerca è come una macchina molto complessa, formata da ingranaggi diversi ma tutti essenziali. Se qualcosa non gira come dovrebbe, l'intero meccanismo si inceppa. Si raggiungono obiettivi grandi quando si impara ad essere umili e a mettere da parte il nostro ego e i nostri interessi per pensare e agire per il bene dell’intera squadra. Smettere di pensare ad essere una singola persona ed iniziare a pensare come un gruppo».
Lei ha definito la formula della teoria della relatività generale di Einstein "un vaso di Pandora". Cosa possiamo aspettarci dalle prossime imprese in astrofisica?
«Ogni volta che abbiamo a che fare con i fenomeni descritti da tali equazioni scopriamo che c’è per fortuna ancora tanto da capire. In astronomia, più guardiamo nell’universo, più guardiamo indietro nel tempo. Noi astrofisici/astronomi siamo un po’ come gli archeologi, soltanto che il nostro campo di azione è un po’ più vasto rispetto a quello terrestre. Io mi definisco un’archeologa dell’Universo.
Come EHT abbiamo iniziato ad ampliare la rete di radiotelescopi e questo ci consentirà di avere una migliore risoluzione e quindi vedere con maggiore precisione le sorgenti. Oltre ad utilizzare radio telescopi già esistenti inizieremo a costruirne di nuovi. Stiamo anche pensando ad una rete di radiotelescopi formata da satelliti in orbita attorno alla Terra, capaci di restituire immagini cinque volte più nitide».
Tra pochi giorni incontrerà gli studenti e le studentesse dell'Università di Trento. Ha sempre desiderato fare l'astrofisica?
«Sì, da sempre! Ho scelto la fisica perché in qualche modo mi dà la possibilità di soddisfare la mia curiosità su tutto quello che mi circonda. Non volevo un lavoro comune, ordinario. Volevo lasciare un segno per l’eterno. Il mio obiettivo è sempre stato quello di poter “entrare nella mente di Dio” e capire la sua creazione (ebbene si sono credente). E quale modo più intrigante se non attraverso lo studio delle leggi della fisica che governano il nostro universo? Le leggi che governano l’universo sono sempre semplici, eleganti, con un che di perfetto nella loro essenza. Se uno non crede in Dio constata questa perfezione e si ferma lì. Se uno è credente non può non vedervi un riflesso della perfezione e presenza di Dio. Quello che cambia è insomma il significato attribuito alle scoperte, l’ottica con cui le possiamo guardare e apprezzare.
Dico sempre ai miei studenti che ogni persona ha le capacità intellettive per affrontare il duro percorso di studi necessario e in generale per realizzare qualche fine. Per fare questo mestiere ci vuole una persona con una combinazione di "talenti", esigenze e inclinazioni, un’energia inesauribile, una buona tolleranza al rischio e al disagio, e un divorante bisogno di “conferme”, un enorme curiosità e coraggio di mettersi in gioco continuamente. La ricerca è un modo di vivere, di pensare, di affrontare una passione così forte che a volte è persino difficile vederla come un vero e proprio lavoro. È per questo motivo che dobbiamo essere convinti, ostinati e determinati del nostro percorso».