Andrea Rinaldo ©UniTrento - Ph. Pierluigi Cattani Faggion

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Acqua, fonte di giustizia

Andrea Rinaldo all’inaugurazione dell’anno accademico, parla di distribuzione delle risorse idriche e ricorda gli anni a Trento

15 novembre 2023
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Paola Siano
Ufficio Stampa e Relazioni esterne

È stato il primo direttore del Dipartimento di Ingegneria civile e ambientale dell’Università di Trento, dal 1989 al 1991. La sua permanenza all’ateneo trentino è durata sette anni, dal 1985 al 1992. Tanto è bastato perché questa esperienza lo segnasse positivamente anche per gli anni a venire. Di quel periodo Andrea Rinaldo, ordinario all'Università di Padova e alla Scuola politecnica federale di Losanna, primo italiano a ricevere lo “Stockholm Water Prize”, considerato il “Nobel dell’acqua”, conserva un ricordo personale e professionale intenso. È l’ospite della cerimonia di inaugurazione dell’anno accademico 2023/2024. Il titolo della prolusione alla comunità accademica e universitaria, platea per l’occasione del teatro Sociale, è” Il governo dell’acqua nel mondo che cambia”. Al centro, il tema della risorsa idrica ma anche il suo rapporto con l’Università di Trento.

«Quella di Trento è stata un’esperienza straordinariamente formativa dal punto di vista accademico. A quel tempo – ricorda il professore - il ritmo delle decisioni accademiche era dieci volte quello dei letargici ritmi delle altre università in cui ho insegnato. Ho stretto amicizie profonde. Ho visto la città cambiare per effetto della presenza dell’Università. Ho vissuto gli anni del passaggio dell’ateneo da provinciale a statale. Il rettore di allora, Fabio Ferrari, è stato un uomo di grandissima visione. Sua l’idea che un’università come quella di Trento sarebbe cresciuta, come ha fatto, se avesse puntato su campi in cui gli atenei più vicini erano meno vocati, dall’ambiente montano alla matematica, solo per citarne alcuni. Furono fatte delle scelte molto intelligenti. Un periodo molto fertile che io ricordo con grande affetto e passione». 

Nel titolo della prolusione le parole chiave della sua attività di ricerca: acqua, politica, cambiamento. Quali sono le sfide da affrontare oggi?

«Il vero tema è la rapidità dei cambiamenti. Questo è ciò che ci deve preoccupare. I cambiamenti climatici ci sono sempre stati, ma non con questa accelerazione. I dati che abbiamo a disposizione degli ultimi 300 anni dimostrano che tutti gli indicatori della qualità della biosfera e quelli economici e sociali sono piatti fino al 1950. Poi cominciano ad andare fuori controllo e a crescere. Ecco allora piene e siccità. Fenomeni che si rincorrono e che sono due facce della stessa medaglia».

C’è ancora tempo per rallentare questa corsa, per invertire la rotta? O dobbiamo abituarci a vivere in uno stato di emergenza perenne?

«Secondo gli scienziati l’unica strada giusta è la mitigazione, ossia la risoluzione delle vere cause dei problemi. L’unico fattore da isolare sarebbe la febbre del pianeta, il riscaldamento terrestre. Effetto dell’aumento delle concentrazioni di gas serra che sono il sottoprodotto di tutto quello che facciamo, soprattutto per l’uso di combustibili fossili. La mitigazione è un problema che non può essere risolto né dall’Italia né dall’Europa. È un problema globale. Ma non credo che il nord del mondo possa convincere il sud ad inquinare meno, dopo che per centinaia di anni lo ha sfruttato. Non ci resta che l’adattamento. Questa è una strada molto più praticabile. Credo che non riusciremo a metterci d’accordo su come ridurre le temperature. Bisognerà quindi agire a livello locale. Pensare a soluzioni per le piene e le siccità, che non possono essere le stesse per tutti ma dipendono dal territorio, dal clima, dal contesto. Da quelle che Lucio Gambi chiamava “le strutture invisibili”: gli assetti politici e sociali, le tradizioni dei luoghi, le sensibilità collettive».

Il tema dei suoi studi parte dall’idea della giusta distribuzione dell’acqua. Anche per questo ha ricevuto lo “Stockholm Water Prize”, per la ricerca sulle reti fluviali come chiave per comprendere la natura ed eliminare le disuguaglianze per la ridistribuzione delle risorse. Queste alimentano le migrazioni. Cosa si può fare, soprattutto nei paesi in via di sviluppo, per sanare questo divario?

«L’ Africa, dove ho lavorato a lungo, è un riferimento importante per noi. Ottocento milioni di persone africane nel giro di una quindicina di anni vivranno in città che oggi ancora non esistono. Il tasso di evoluzione che ha il continente è straordinario. L’uso dell’acqua è generalmente assunto dagli economisti come indicatore del benessere economico e sociale di una comunità. In Cina ad esempio, il consumo d’acqua sta aumentando vertiginosamente perché cresce la cosiddetta middle class. La popolazione inizia a stare meglio e quindi utilizza più acqua. Un trentino mediamente consuma 300 litri al giorno, mentre in una famiglia dell’Africa subsahariana la dotazione è quella che una donna riesce a portare in testa in un contenitore, svegliandosi all’alba per raggiungere il pozzo più vicino.  Questo per dire che si incrociano intorno al tema dell’acqua questioni economiche, sociali, etiche. Non possiamo non osservare che il motore delle migrazioni sono le differenze nel benessere. E queste si misurano in larga misura con l’acqua. Va ripensata alla radice la giustizia distributiva delle risorse idriche come strumento per la riduzione delle disuguaglianze su scala globale».

Qual è il contributo che la ricerca scientifica può dare per arginare queste disuguaglianze e prevenire situazioni ancora più complesse e anche drammatiche?

«La scienza va sempre ascoltata. Può essere non pratica ma guarda lontano e aggiorna se stessa continuamente. Il principio dell’investigazione, del desiderio di approfondimento, del capire il linguaggio a volte misterioso della natura, è lo scopo dei nostri studi. La scienza studia i meccanismi della natura, l’ingegneria studia ciò che ancora non è, ma gran parte del percorso lo si fa insieme. L’obiettivo è lo stesso».