In vent’anni di regime, il fascismo riuscì a conformare con la sua ideologia ogni ambito della società italiana, anche quelli apparentemente più difficili da politicizzare. È il caso della matematica, disciplina con una lunga tradizione di studi nel nostro paese, spesso anche per merito degli intellettuali ebrei che il fascismo perseguitò e costrinse infine a emigrare. Il regime cercò di piegare anche la matematica ai suoi fini, assegnandole un ruolo propagandistico e utilitaristico: doveva permettere al regime di farsi bello, ma anche fornire soluzioni immediate e concrete. Ne parliamo con Angelo Guerraggio, docente di Storia della matematica all’Università Bocconi di Milano, ospite il prossimo 14 dicembre al Polo Ferrari di Povo dell’evento “I matematici italiani nel ventennio fascista”.
Professor Guerraggio, quale fu il ruolo assegnato agli intellettuali, e in particolare agli scienziati, dall’ideologia fascista?
«Nell’ideologia del regime gli scienziati avevano sostanzialmente una funzione propagandistica e utilitaristica. Gli servivano per farsi bello, all’interno, ma anche su un piano internazionale, dato che il fascismo non era inizialmente ben visto negli ambienti scientifici.
Il fascismo, come ogni regime rivoluzionario, aveva bisogno di mostrare che sapeva risolvere i problemi del Paese. Questa era la contropartita promessa in cambio della riduzione delle libertà. La scienza e gli scienziati dovevano quindi prestarsi al raggiungimento di questo obiettivo. In questa direzione andava anche la nomina di Guglielmo Marconi a presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche. Una persona sicuramente riconosciuta a livello internazionale che però non aveva costruito la propria carriera sugli studi, ma piuttosto sulla capacità di saper mettere a profitto le proprie invenzioni».
Durante il ventennio nacquero alcuni istituti di ricerca fondamentali per lo studio della matematica: il Cnr nel 1923, l'Istituto Nazionale per le Applicazioni del Calcolo nel 1932 e l'Istituto di Alta Matematica nel 1939. Perché il regime puntava su questa disciplina?
«Bisogna innanzitutto fare qualche puntualizzazione sulla genesi di questi istituti. La storia del Cnr inizia già nel ‘17, emanazione di un comitato internazionale. Si tratta quindi di un progetto pre-fascista che durante il fascismo vede la luce. L’Inac era invece un progetto di Mauro Picone, uno dei maggiori sostenitori di una matematica orientata verso le applicazioni. Il fascismo entra in sintonia con lui e decide di sostenerlo, proprio in considerazione della funzione utilitaristica che il regime assegnava a questa disciplina. Diversa fu la genesi dell’Istituto di Alta Matematica, che invece si occupava maggiormente di ricerca di base. In questo caso, contò la rete di relazioni di Francesco Severi, matematico dichiaratamente fascista. Anche questo, però, non è un progetto “del fascismo”, ma un progetto che si realizza “nel fascismo”».
Nel 1931, fu imposto a chi insegnava all’università il giuramento di fedeltà al fascismo. Sette anni dopo, nel 1938, vennero promulgati i "Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista". Quali furono le conseguenze nel campo della matematica?
«Il provvedimento del ’31 non ebbe conseguenze immediate rilevanti. Tra i 12 che non firmarono il giuramento di fedeltà ci fu un solo matematico, il fondatore del Cnr Guido Volterra, che venne espulso dall’università e da tutte le Accademie di cui faceva parte. Senz’altro una grossa perdita, ma pur sempre un caso isolato, anche in considerazione dell’età di Volterra che all’epoca aveva 71 anni.
Più pesanti furono le conseguenze a breve termine delle leggi antiebraiche del ‘38. Una decina di matematici italiani furono allontanati dalle università italiane. Tra questi, nomi di primo piano come Federigo Enriques, Gino Fano, Guido Ascoli, Guido Fubini, Beppo Levi, Tullio Levi-Civita, Beniamino Segre e Alessandro Terracini. Molti di loro dovettero spostarsi all’estero per continuare i propri studi.
Sia i provvedimenti del ’31, sia quelli del ‘38 ebbero però conseguenze molto pesanti a medio-lungo termine, perché la scienza – in questo caso la matematica – vide fortemente ridotta la propria autonomia. In quel momento, la comunità dei matematici iniziò a introiettare il fatto che è la politica a dettare le regole anche all’interno dell’università».
Come si comportò la comunità dei matematici di fronte a questi provvedimenti liberticidi?
«All’interno delle università non ci fu una risposta forte alle nuove regole antiebraiche. L’Unione matematica italiana non reagì, non ci fu nessun distinguo, seppur sottile, nessuna presa di posizione quant’anche sfumata, nessuna richiesta di attenuare queste misure. L’Umi intervenne solo in termini corporativi per chiedere che le cattedre sottratte ai matematici ebrei non venissero affidate a studiosi di altre discipline. Ciò che successe in quegli anni portò addirittura al tentativo di riscrivere la storia della matematica italiana cancellando – o ridimensionando fortemente – il contributo dei matematici ebrei a questa disciplina».
Qual è l’eredità del ventennio fascista sulla matematica di oggi?
«Il lascito più negativo fu il fatto che la generazione che ricostruì l’Italia nel secondo dopoguerra continuò a identificare la politica con il fascismo. Decise quindi di chiudersi nei propri studi, all’interno delle rassicuranti mura della scienza. Per questa generazione, la politica significava imposizione e intromissione: la politica è una cosa brutta e negativa a cui sottrarsi; la scienza invece non tradisce, ma premia merito ed eccellenza. In questo modo si negò però ogni rapporto tra scienza e società.
Tutto questo durò fino agli anni Settanta. Poi il dibattito politico di quel periodo, il Sessantotto, rimise in discussione la neutralità della scienza; A questo si aggiunse poco dopo la rivoluzione microelettronica, che spostò nuovamente l’ago della bilancia verso la matematica applicata».
Il Dipartimento di Matematica dell’Università di Trento propone giovedì 14 dicembre alle 15 nell’aula 207 di Povo 1 (via Sommarive, 5) l’incontro dal titolo “I matematici italiani nel ventennio fascista”. Angelo Guerraggio dell’Università Bocconi di Milano racconterà la storia di questa disciplina dalla riforma Gentile alla “guerra dei manifesti”, dal giuramento del 1931, fino alle leggi razziali del 1938 e alla conseguente epurazione che cambiò la fisionomia del mondo accademico italiano. Durante l’evento, sarà anche ricordato Giannantonio Manci, partigiano trentino morto suicida nel ’44 per sottrarsi alle torture della Gestapo.