A chi appartiene il David di Michelangelo? La risposta è abbastanza facile: sotto il profilo legale la celebre scultura è di proprietà dello Stato italiano ed è in custodia presso la Galleria dell'Accademia di Firenze. E la sua immagine? Qui le cose si fanno più complesse, perché il regime giuridico relativo alle immagini dei beni culturali pubblici è articolato, contraddittorio, un vero ginepraio di norme e sentenze. Ne parliamo con Roberto Caso, docente di Diritto privato comparato, che il prossimo 8 maggio coordinerà, insieme ad Anna Simonati, una tavola rotonda dal titolo "Le immagini del patrimonio culturale: un’eredità condivisa?". L’evento è parte del convegno interdisciplinare di due mezze giornate (pomeriggio dell’8 e mattina del 9 maggio) “Fruizione pubblica del patrimonio culturale tra conservazione e apertura”, organizzato e promosso dalla Facoltà di Giurisprudenza e dal Dipartimento di Economia e Management con il coordinamento scientifico di Roberto Caso, Maria Della Lucia, Giulia Dore e Anna Simonati.
Professor Caso, qual è il quadro normativo italiano in merito alle immagini che riproducono opere del patrimonio culturale?
Il quadro giuridico italiano è molto complesso, perché si pone all’incrocio di diverse discipline: la tutela dei beni culturali, la proprietà intellettuale, i diritti della personalità e i dati aperti della pubblica amministrazione di derivazione europea. In base al Codice dei beni culturali e del paesaggio (articoli 107 e 108), la riproduzione di un’opera d’arte appartenente al patrimonio culturale pubblico è libera solo per finalità diverse dal lucro, quindi per uso personale, studio e ricerca. Secondo un’interpretazione (che non condivido), qualsiasi utilizzo per scopi commerciali richiederebbe invece l’autorizzazione dell’ente che custodisce il bene - ad esempio un museo - e il pagamento di un canone di concessione. In base a questa interpretazione, i singoli enti possono anche decidere di negare l’autorizzazione per tutte quelle riproduzioni o quegli usi ritenuti non “consoni” o non “opportuni”. Il discorso vale anche nel caso delle riproduzioni digitali indirette, ad esempio l’uso per fini commerciali di un’immagine di un bene culturale reperibile sul web e liberamente scaricabile da siti come Wikipedia.
Il web è saturo di immagini di beni culturali ed è pressoché impossibile avere il totale controllo sulle riproduzioni non autorizzate. Come impedire l’uso di un’immagine di pubblico dominio? Ha senso oggi porre limiti alla diffusione delle immagini del patrimonio culturale pubblico?
C’è un caso emblematico che evidenzia tutte le contraddizioni insite in queste norme e nelle loro interpretazioni in senso restrittivo, ignare della rivoluzione digitale e della comunicazione planetaria. Da tempo le Gallerie dell’Accademia di Venezia stanno cercando di far pagare alla Ravensburger, nota azienda tedesca di giochi da tavolo, i diritti per l’utilizzo dell’immagine dell’Uomo Vitruviano, il celebre disegno di Leonardo da Vinci da loro custodito. Dopo trattative senza sbocco, la vicenda è sfociata in una lite giudiziaria e nel 2022 il Tribunale di Venezia ha stabilito che la Ravensburger non potesse utilizzare l’immagine per fini commerciali senza l’autorizzazione e senza pagare i diritti. L'azienda tedesca si è quindi rivolta al tribunale delle imprese di Stoccarda, che poche settimane fa ha dato ragione alla Ravensburger, ribadendo come il Codice dei Beni Culturali italiano non abbia valore fuori dei nostri confini.
Anche il David di Michelangelo è stato al centro di più controversie legali.
Sì, l’ultima, quella più nota e clamorosa, risale allo scorso anno. Nell’aprile del 2023 il Tribunale di Firenze ha condannato la casa editrice Condè Nast per aver riprodotto sulla propria rivista l’immagine del David di Michelangelo, accostandola - mediante un effetto morphing - a quella di un famoso modello. Senza autorizzazione, ovviamente. I danni riconosciuti dai giudici in questo caso sono due: quello derivante dal mancato pagamento del canone e quello per aver “svilito” e “umiliato” l’alto valore simbolico ed identitario dell’opera d’arte. Con questa sentenza il Tribunale di Firenze ha riconosciuto per la prima volta l’esistenza di un vero e proprio diritto all’immagine delle opere d’arte, al pari del diritto all’immagine delle persone fisiche previsto dal Codice Civile. Si tratta dell’allargamento improprio di un diritto, un pericoloso ‘salto nel buio’ nel tentativo di controllare le riproduzioni del patrimonio culturale di pubblico dominio, che dovrebbe essere libero e a disposizione di tutti.
Sono sentenze che assestano un duro colpo all’accesso aperto al patrimonio culturale, a fronte di prospettive di guadagno non proprio cospicue…
Lo ha ribadito anche la Corte dei Conti: pensare di avere un ritorno economico dai canoni di concessione è anacronistico e antieconomico, perché gli oneri di gestione amministrativa sono superiori alle entrate. Queste istanze di controllo esclusivo, inoltre, sono in palese contraddizione con il Piano Nazionale di Digitalizzazione del Patrimonio Culturale adottato nel giugno 2022 e in contrasto con il diritto dell’Unione europea per quanto concerne il diritto d’autore e l’apertura dei dati del settore pubblico. Negare la libera riproduzione del patrimonio culturale pregiudica la libertà di espressione e informazione, nonché il diritto umano alla cultura e alla scienza. Bisogna chiedersi infine se sia giusto che lo Stato si riservi il potere di decidere chi e come può riprodurre i beni culturali, esercitando un controllo sul presunto ‘decoro’ del bene. La cultura si difende da sola.
Alla luce di queste considerazioni, perché si persegue sulla strada di un approccio ‘proprietario’ nei confronti delle immagini immateriali dei beni culturali?
Si tratta di un indirizzo politico e lo si evince da alcuni decreti ministeriali, in particolare dall’atto di indirizzo del Ministero della Cultura concernente l’individuazione delle priorità politiche da realizzarsi nell’anno 2023 e per il triennio 2023-2025, dove si legge che “occorre proteggere il patrimonio rappresentato dalle immagini, anche digitali, del nostro patrimonio culturale, attraverso un’adeguata remuneratività”. Nell’aprile dello scorso anno è stato pubblicato il decreto ministeriale 161/2023, che ha introdotto una serie di limitazioni e imposto il pagamento anche alle pubblicazioni scientifiche. A seguito di numerose proteste, il decreto è stato modificato nel marzo di quest’anno e sono state introdotte modifiche volte ad ammorbidire la prima versione del 2023. È sicuramente un passo avanti, ma non si può parlare di liberalizzazione dell’uso delle immagini dei beni culturali pubblici. La strada della libertà è ancora lunga e l’Italia sconta un grave ritardo rispetto al resto d’Europa e del mondo.