Donald Truxillo

Eventi

Troppo giovane per impegnarsi, troppo vecchio per entusiasmarsi?

Come i pregiudizi sull’età minano le carriere lavorative nell’analisi di Donald Truxillo

16 ottobre 2024
Versione stampabile
di Alessandra Saletti
Uffico Stampa e Relazioni esterne

Il prossimo 24 ottobre lo psicologo del lavoro e delle organizzazioni Donald M. Truxillo, professore alla Kemmy Business School dell’Università di Limerick, riceverà il titolo di Distinguished Visiting Professor del Dipartimento di Psicologia e Scienze cognitive. In questa intervista UniTrentoMag anticipa i temi della sua lectio magistralis dedicata all’invecchiamento di successo sul lavoro

Professor Truxillo, una ricerca condotta di recente a livello locale sui lavoratori tra i 18 e i 35 anni ha messo in luce come l’ideale del posto fisso sia definitivamente tramontato. La stabilità è solo al quinto posto tra le caratteristiche che i giovani cercano in posto di lavoro. Mentre svetta l’equilibrio tra vita lavorativa e vita personale. Cosa ci è successo?

«È un'ottima domanda e la risposta è complicata. Ma capisco il punto di vista delle nuove generazioni e credo che queste loro aspettative siano sane. Credo che le precedenti generazioni avrebbero voluto godere di questo equilibrio tra vita privata e lavorativa. Ma non credo che se lo siano mai aspettato, che lo abbiano davvero ritenuto possibile.
L’invecchiamento sano e di successo sul lavoro è il risultato di un processo che inizia già nei primi anni della carriera. Ed è bene far iniziare questo processo fin da giovani, anche cambiando alcuni paradigmi. Cercare un equilibrio fin da subito aiuta le persone a ridurre lo stress, a gestire meglio il proprio tempo e le proprie priorità, nella misura in cui l'organizzazione lo consente. Credo che proprio che il bisogno di attenzione su questo equilibrio sia la ragione per cui molte persone alla fine decidono di non lavorare in modo tradizionale, o di farlo in modo ibrido. Secondo me è qualcosa di positivo che abbiamo imparato come esseri umani».

Sì, ma come lo si spiega ai datori di lavoro?

«Bilanciare la propria vita privata con il lavoro è un bene anche per le aziende. Partiamo da qui. Se durante le ore di lavoro le persone pensano al figlio malato o al genitore che ha bisogno di cure, se sono concentrate altrove, è facile che si distraggano e che aumenti, ad esempio, il rischio di incidenti sul lavoro. E quindi i problemi per l’azienda. Il carico di stress che viene dal pensiero di ciò che ci aspetta fuori può essere molto pesante e senz’altro ha ripercussioni anche sul posto di lavoro.
Per non parlare di come questo incida sui meccanismi di attrazione dei lavoratori. La domanda non è più se il candidato va bene per la mia azienda, ma se la mia azienda riesce ad attrarre i migliori. Le aziende si stanno riorganizzando per offrire benefit e strumenti per equilibrare vita-lavoro capaci di renderle appetibili agli occhi dei potenziali lavoratori, indipendentemente dalla loro età. Ma non basta: occorre che chi occupa un ruolo di gestione e supervisione dia il buon esempio, sposando in prima persona uno stile di vita e di lavoro bilanciato. Deve fornire un modello da imitare».

Ai giovani spesso si rimprovera di fare le cose in modo superficiale o di non aver voglia di impegnarsi. A chi è lì da molto, invece, di aver perso lo slancio, la capacità di mettersi in discussione…

«Sì, certo. I pregiudizi sono molti nei confronti delle varie fasce di età. Quante volte leggiamo sui media la rappresentazione di una generazione di giovani che non vogliono andare a lavorare. È una semplificazione. Credo che invece aspettarsi un trattamento equo e ragionevole da parte del proprio datore di lavoro sia una buona cosa. Sono contento che finalmente si inizi a chiederlo.
Ho iniziato a occuparmi di invecchiamento al lavoro partendo dal nodo più generale delle discriminazioni e del razzismo. Poi, anche grazie ai contatti con il gruppo di lavoro di Rovereto, mi sono appassionato ai temi della discriminazione per età. Dopotutto, invecchiamo tutti, prima o poi è una cosa che ci riguarda.
Vari studi ci dicono che quando una persona anziana perde il lavoro impiega più tempo a trovarne uno nuovo rispetto a una persona giovane. Questo è dovuto alla discriminazione? In che misura? Alcuni ricercatori sostengono che ciò sia in parte dovuto al fatto che i candidati più anziani spesso non hanno una rete sociale sufficientemente ampia per trovare una nuova collocazione. I giovani in questo sarebbero invece avvantaggiati perché possono contare su numerose connessioni, potenziate dalla presenza virtuale sui social network. Questo mondo così allargato non sarebbe in realtà più la loro arena naturale.
Di certo è vero che la cerchia di amici, a una certa età può farsi più stretta. Le relazioni diventano meno numerose ma più approfondite. Però poi secondo me, oltre a questo, pesa proprio il fattore pregiudizio. E questo tende a innescare decisioni discriminatorie soprattutto quando si deve assumere qualcuno. Le ricerche ci dicono, infatti, che quando si lavora già a stretto contatto con una persona anziana, la conoscenza diretta, attutisce i pregiudizi nei suoi confronti. Ma quando la persona è solo un nome su un curriculum gli stereotipi sull’età pesano».

Ma sono così diffusi questi pregiudizi?

«Più di quello che pensiamo. Un altro aspetto interessante delle ricerche che abbiamo condotto insieme a Rovereto è proprio questo. Ci siamo resi conto che alcuni di questi pregiudizi non sono consci. Se nel questionario si chiede di descrivere in generale le persone anziane, i commenti principali esaltano vari aspetti positivi, come l'affidabilità, l’esperienza, il rispetto delle regole, la propensione ad andare d’accordo con gli altri. Ma allo stesso tempo esistono pregiudizi di cui non ci si rende conto. E sono questi che potrebbero bloccare di fatto la mobilità lavorativa, le assunzioni a una certa età.
Nella nostra cultura siamo cresciuti con l’idea che l'anziano sia cattivo e il giovane sia buono. Ma attenzione: quando parliamo di lavoratori anziani, non intendiamo persone anziane. Intendiamo persone che magari hanno 50 o 60 anni. Già questo è uno stereotipo inconscio. Quindi, cercare qualcosa di fresco e nuovo sul lavoro potrebbe essere sensato. Associarlo all’idea di giovane è invece un pregiudizio inconscio.
Un aspetto su cui sto lavorando molto in questo periodo è l’impatto negativo che le micro discriminazioni legate all'età possono avere sulla propria immagine di lavoratore. E come questo si traduca in maggiori difficoltà e insicurezze sul lavoro o nella ricerca di un impiego»..

Questo vale per le persone. E per le organizzazioni, invece, come funziona?

«Dipende dall'organizzazione, la situazione è molto varia. E ancora non credo si possa dare una risposta univoca perché l’importanza che viene attribuita ai lavoratori anziani può essere molto diversa tra le varie professioni e ambiti di lavoro. Di sicuro sappiamo che la discriminazione inconsapevole può minare anche le misure che le aziende adottano per favorire un invecchiamento positivo sul lavoro.
Per lavoro ho avuto modo di intervistare varie lavoratrici e lavoratori anziani. Mi raccontano che i loro supervisori spesso spingono perché non vadano in pensione troppo presto. “Abbiamo bisogno delle tue conoscenze”, viene loro detto. Eppure se gli stessi lavoratori si trovano magari a essere disoccupati o a dover cambiare lavoro, sono consapevoli che non riusciranno facilmente a trovare un nuovo impiego. Questo è molto interessante. Da un lato c’è magari un’azienda che sa valorizzare i propri lavoratori e così facendo trattenerli. Dall’altra parte, altre aziende, o magari pure la stessa, possono anteporre i pregiudizi nell’assunzione di nuovo personale anziano».

Ritiene che ci sia una tendenza da parte delle aziende a riconoscere il valore di una persona solo quando sta per andarsene?

«Non sempre, ma spesso è così. In questo senso, un altro fenomeno che registro in molte aziende, è invece la preoccupazione di come mantenere la conoscenza organizzativa. Come si fa a recuperarla, trasmetterla ai più giovani? È anche questo un tema che per me rimane ancora aperto. Credo che le organizzazioni abbiano capito il valore di accompagnare questo passaggio ma non sempre riescono a mettere in atto in anticipo piani di affiancamento e passaggio di competenze verso i più giovani. Così a volte si organizzano soltanto dopo che la persona è andata in pensione per fare brevi contratti aggiuntivi. Potrebbe essere una mancanza di strategia, di visione a lungo termine. O, più semplicemente, non ci hanno fatto caso. All’improvviso chi supervisiona si rende conto che un suo collaboratore o collaboratrice sta per andare in pensione. È una delle conseguenze della pressione costante a cui purtroppo il lavoro oggi può arrivare.
Una delle aree su cui si sta lavorando in psicologia delle organizzazioni è il ‘job crafting’, la possibilità di modellare (craft) il proprio lavoro adattandolo a nuove esigenze o gusti personali. È ciò che ti permette di guardare il tuo lavoro e chiederti “Come posso farlo meglio rispetto a quanto ho fatto finora?” oppure “Ho modo di renderlo migliore per me e allo stesso tempo per l’azienda?”. Ecco, su questo incoraggerei i lavoratori anziani a parlare con i propri supervisori e questi ultimi a promuovere occasioni costanti di confronto generazionale».

Invecchiare bene sul lavoro. È una promessa? Un sogno? O può succedere davvero?

«Direi che è senz’altro un punto di arrivo, una speranza. Stiamo scoprendo che alcune persone e alcune organizzazioni sono più brave di altre a ad aiutare le persone a invecchiare con successo, sul lavoro. Negli studi condotti su varie aziende tedesche si è capito che nelle aziende in cui vi sono politiche di risorse umane attente a persone di ogni età – non soltanto giovani, non solo anziane – ottengono benefici in termine di attaccamento lavorativo nelle persone di tutte le età. Questo perché viene comunicata una cultura dell’invecchiamento sano sul posto di lavoro. Se ci pensiamo, tutte le persone, a prescindere dall’età o dalla situazione personale, apprezzano sentire il sostegno della propria organizzazione. Sapere di poter fare domande senza problemi ai propri supervisori o sentire la vicinanza dei colleghi è una delle cose migliori che possano capitare sul posto di lavoro. Aiuta le persone a mantenersi motivate, sane e coinvolte. L’attenzione che riserviamo oggi per i lavoratori anziani è di fatto una promessa per quelli giovani. E questo vale più di mille parole».


Too young to get serious, too old to get excited?

How age bias undermines careers, analysed by Donald Truxillo

On 24 October, the work and organisational psychologist Donald M. Truxillo, professor at the Kemmy Business School of the University of Limerick, will receive the title of Distinguished Visiting Professor of the Department of Cognitive Science. In this interview, UniTrentoMag anticipates the topics of his lectio magistralis on successful ageing in the workplace».

Professor Truxillo, a recent local survey of workers between the ages of 18 and 35 showed that the ideal of a permanent job has definitely gone. Stability ranks only fifth among the characteristics young people look for in a job. Work-life balance is the top one. What has happened to us?

«It is a very good question and the answer is complicated. But I understand the younger generation's point of view and I think their expectations are healthy. I think previous generations would have liked to enjoy this work-life balance. But I don't think they ever expected it, they never really thought it was possible.
Healthy and successful ageing at work is the result of a process, starting in early and middle years. It is good to start that process at an early age, even if it means changing some paradigms. Seeking balance early on helps people reduce stress, manage their time and priorities better, as far as the organisation allows. I think the need for work-life balance is the reason why many people end up not working in a traditional way, or choose to work in a hybrid way. I think this is something positive that we have learned as human beings».

Yes, but how do you explain that to employers?

«Helping to balance work and personal life is also good for business. Let's start here. If people are thinking about their sick child or caring parent during working hours, if they are focused elsewhere, it is easy for them to become distracted, and the risk of accidents at work, for example, increases. And so do the problems for the company. The stress load of thinking about what is waiting for us outside can be very high and certainly has an impact on the workplace.
Not to mention how this affects the attraction mechanisms of employees. The question is no longer whether the candidate is good for my company, but whether my company can attract the best. Companies are reorganising to offer benefits and work-life balance tools that make them attractive to potential employees, regardless of age. But that is not enough: managers and supervisors need to set a good example by promoting their own work-life balance. They need to provide model for employees to emulate».

Young people are often accused of being superficial or unwilling to commit. Those who have been around for a long time are accused of having lost their dynamism, their ability to question themselves...

«Yes, of course. There are a lot of prejudices against different age groups. How often do we read in the media that there is a generation of young people who do not want to work. That is an oversimplification. Instead, I think it is a good thing to expect fair and reasonable treatment from your employer. I am glad that people are finally starting to demand it.
I started working on ageing in the workplace from the more general issue of discrimination and racism. Then, thanks in part to contacts with the Rovereto working group, I became interested in age discrimination issues. After all, we all grow old, sooner or later it is something that affects us.
Various studies show that when an older person loses their job, it takes longer to find a new one than it does for a younger person. Is this due to discrimination? To what extent? Some researchers argue that it is partly due to the fact that older applicants often do not have a large enough social network to find a new job. Young people, on the other hand, would have an advantage because they can count on a large number of connections, enhanced by their virtual presence on social networks. This extended world would no longer be their natural arena.
It is certainly true that the circle of friends can become narrower at a certain age. Relationships become fewer but deeper. But in addition, in my opinion, the prejudice factor comes into play. And that tends to lead to discriminatory decisions, especially when you are looking to hire a person for a job. Research suggests that if you are already working closely with an older person, direct acquaintance actually cushions prejudice against them. But when the person is just a name on a CV, age stereotypes weigh heavily».

But are these prejudices as widespread as they seem?

«More than we think. This is another interesting aspect of the research we did together in Rovereto. We realised that some of these prejudices are unconscious. When we asked respondents to describe older people in general terms, the main comments emphasised various positive aspects, such as reliability, experience, respect for rules, the ability to get along with others. But at the same time there are prejudices that people are not aware of. And it is these that may block job mobility recruitment at a certain age.
In our culture we have grown up with the idea that “old” is negative and “young” is good. But be careful: when we talk about older workers, we do not mean very old people. We mean people who are maybe 50 or 60 years old. This is already a subconscious stereotype. It may make sense to look for something fresh and new in the workplace. Associating it with the idea of being young, on the other hand, is an unconscious prejudice.
One aspect I am working on a lot at the moment is the negative impact that age-related micro-discrimination can have on one's image of themselves as a worker, and how this translates into greater difficulties and insecurities at work or when looking for a job».

This is true for people. And how does it work for organisations?

«It depends on the organisation, the situation is very different. And I still don't think you can give a single answer, because the importance attached to older workers can be very different in different professions and industries. We certainly know that unconscious discrimination can undermine even the measures that companies take to promote positive ageing in the workplace.
In my work I have had the opportunity to interview a number of older workers. They tell me that their managers often urge them not to retire too early. ‘We need your knowledge,' they are told. But when these same workers find themselves perhaps unemployed or having to change jobs, they are aware that they will not find new employment easily. This is very interesting. On the one hand, there may be a company that knows how to value its employees and thus retain them. On the other hand, other companies, or perhaps even the company itself, may have prejudices against bringing in older people as new employees».

Do you think that companies tend to only appreciate someone when they are about to leave?

«Not always, but often. Another phenomenon I see in many companies is the concern about how to preserve organisational knowledge. How do you get it back, how do you pass it on to younger people? This is also a question that remains open for me. I think that organisations have understood the value of supporting this transition, but they do not always manage to make plans in advance for coaching and transferring skills to younger people. So sometimes they only organise short additional contracts after the person has retired. It could be a lack of strategy, a lack of long-term vision. Or, more simply, they have not been paying attention. Suddenly the manager realises that one of his employees is about to retire. This is one of the consequences of the constant pressure that work can unfortunately reach today.
One of the areas that organisational psychology is working on is 'job crafting', the ability to craft one's work by adapting it to new needs or personal tastes. It allows you to look at your work and ask yourself 'how can I do it better than I have been doing it' or 'is there a way I can make it better for me and the organisation at the same time'. I would encourage older workers to talk to their managers about these issues, and managers to promote these opportunities that come with it».

Successful ageing at work. Is it a promise? A dream? Or can it really happen?

«I would say it's definitely an arrival point, a hope. We are discovering that some people and some organisations are better than others at helping people age successfully at work. In the studies that have done in various German companies, they have found that those companies that have HR policies that benefit people of all ages – not just young, not just old – get benefits in terms of retention both older and younger people. That is because it communicates a positive aging culture. When you think about it, all people, regardless of age or personal situation, appreciate feeling supported by their organisation. Knowing that you can ask your manager questions or feel close to your colleagues is one of the best things that can happen in the workplace. It helps people stay motivated, healthy, and engaged. Today's focus on older workers is really a promise to younger ones. Which is worth a thousand words».