Ufficialmente poche, sparse per le strutture carcerarie di tutta Italia, solo da poco contemplate nell’ordinamento penitenziario. Sono le persone trans, quelle cioè che hanno seguito o stanno seguendo un percorso per l’affermazione della propria identità di genere. Nell’ambito del ciclo "T.r.a.n.s. Rights", il Dipartimento Cibio e la Facoltà di Giurisprudenza hanno organizzato lo scorso 24 ottobre un seminario dedicato a “Binarismo penitenziario e identità di genere in transizione: nuove sfide per il sistema carcerario italiano”. Ne parliamo con Antonella Massaro, associata di diritto penale all’Università Roma Tre e tra i relatori dell’incontro.
Professoressa Massaro, qual è la condizione delle persone trans nelle carceri italiane?
«I dati del 2023 parlano di una settantina persone trans in carcere in tutta Italia. Affrontare le questioni di genere in carcere significa prima di tutto confrontarsi con un problema di gestione dello spazio. Spesso si utilizza un’espressione un po' fredda, distaccata, “allocazione delle persone detenute”. Le persone vengono sistemate in carcere sulla base di un rigoroso binarismo maschile-femminile, una soluzione semplice, che comporta però dei problemi.
Quando ci si è confrontati con le questioni di genere in ambito penitenziario non si è trattato storicamente di un problema di riconoscimento del diritto della persona detenuta ma si è trattato prima di tutto di gestire problemi di sicurezza. La persona detenuta biologicamente maschio che abbia intrapreso o intenda intraprendere un percorso per l’affermazione di genere pone prima di tutto un problema di sicurezza. Storicamente, a questo problema sono state offerte tre soluzioni: l’isolamento, la collocazione in sezioni protette, oppure il collocamento in sezioni promiscue, quelle in cui le persone trans finiscono insieme a collaboratori di giustizia, ex appartenenti alle forze dell'ordine e addirittura sex offenders».
Cos’è cambiato con la riforma dell’ordinamento penitenziario del 2018?
«La riforma del 2018 ha fatto uscire le questioni di genere dall’ombra, perché vengono esplicitamente menzionate dal legislatore. Quando si parla di diritto, e soprattutto di diritti fondamentali delle persone, parlare, nominare ciò che prima era omesso è fondamentale.
Per quanto riguarda le questioni di genere, sono tre le modifiche introdotte: quella all’articolo 1, con il riferimento esplicito all'identità sessuale e all'orientamento sessuale; quella all’articolo 14, che prevede la possibilità di istituire sezioni ‘omogenee’ (quindi non più ‘promiscue’) nel caso una persona detenuta che si trovi in una condizione di pericolo per via del proprio orientamento sessuale o dell’identità di genere ne faccia richiesta; quella all’articolo 11, che interviene invece sul diritto alla salute ed esplicita che la persona detenuta che abbia intrapreso un percorso per l’affermazione di genere ha diritto a proseguire la terapia ormonale e a ricevere il necessario sostegno psicologico».
Nel suo intervento parla del rischio di una doppia detenzione per le persone trans: di cosa si tratta?
«Quando si parla del rischio di doppia detenzione si fa riferimento a una 'afflittività' ulteriore e diversa rispetto a quella che deriverebbe dall’esecuzione della pena come privazione della libertà personale. Le persone che si trovano in particolari condizioni e che sono anche detenute rischiano cioè di essere sottoposte a una pena doppiamente afflittiva. Con un linguaggio più contemporaneo, potremmo parlare di doppia o multipla vulnerabilità. È chiaro che il principio fondamentale che ispira l'ordinamento penitenziario è quello per cui sono illegittime le restrizioni della libertà personale che non siano strettamente funzionali all'esecuzione della pena e alle esigenze di ordine e sicurezza. La detenzione separata può rendersi necessaria per garantire la stessa incolumità fisica delle persone. Ragionando però in un’ottica di gestione degli spazi, separando un gruppo di persone dalle altre, limito il loro accesso all’offerta trattamentale (l’insieme delle attività e dei servizi a cui può accedere una persona in carcere, ndr), compromettendo quindi il principio fondamentale di individualizzazione della pena e del trattamento».
Ha citato l’esempio positivo del carcere di Rebibbia. Cosa rende speciale quell’esperienza?
«Lavorando a Roma, Rebibbia è una delle realtà che conosco meglio. Uno dei suoi punti di forza è l'ampia offerta trattamentale. Al suo interno, ci sono alcuni profili di eccellenza, ad esempio il laboratorio teatrale. È un’attività che riscuote molto successo anche tra le persone trans. Spesso il rischio è che le proposte del carcere replichino determinati stereotipi, ad esempio proponendo la falegnameria agli uomini e la sartoria alle donne. Il teatro, o comunque i laboratori di recitazione, si inseriscono in un'offerta trattamentale particolarmente ampia che permette di contenere il rischio di doppia detenzione».
Al termine del suo intervento, ha contrapposto il buonsenso al senso comune. Qual è l’approccio giusto quando si parla di persone trans e carcere?
«Non so dire quale sia l'approccio giusto, però sono certa che per affrontare le questioni di genere fuori e dentro il carcere dobbiamo fare i conti con stereotipi di stampo sessista. Tutto questo nel carcere si trova esponenzialmente amplificato. “Buonsenso” vuol dire ad esempio dare la possibilità alle persone trans di avere a disposizione beni specifici per la cura del corpo, la crema depilatoria anziché la schiuma da barba, un parrucchiere anziché un barbiere. Per questo non c’è bisogno di una riforma, tuttalpiù di una rivoluzione gentile da portare avanti insieme senza compromettere le esigenze di sicurezza e senza nemmeno che sia necessario un intervento del legislatore».