Trasformare il dolore in un tentativo di cambiamento della società. Per renderla rispettosa delle differenze, più inclusiva, più gentile. È il lavoro che Gino Cecchettin sta portando avanti per fare in modo che giovani donne realizzino i loro sogni di vita, libere di essere quello che desiderano. Uno sforzo necessario, perché non accada più quello che è successo alla sua Giulia, uccisa nel novembre del 2023 dall’ex fidanzato Filippo Turetta. Un femminicidio che ha sconvolto l’Italia e che però ha creato rumore, ha cambiato la percezione di che cosa sia la violenza sulle donne. Una morte vissuta, per la prima volta, come un delitto di tutta la società. «Per Giulia non fate un minuto di silenzio ma bruciate tutto», sono state le parole della sorella Elena, che insieme al padre, con lucidità e consapevolezza, hanno puntato il dito contro il patriarcato che ancora attanaglia il nostro Paese. Dopo la morte di Giulia la sua famiglia ha creato la Fondazione a lei dedicata, per contrastare le disparità e la violenza di genere, aiutare donne in difficoltà e sostenere le ragazze nello studio delle materie scientifiche (la stessa Giulia era una studentessa di ingegneria biomedica dell'Università di Padova). Gino Cecchettin il 13 marzo alle 17 a Palazzo Prodi incontrerà la comunità studentesca di UniTrento.
UniTrentoMag lo ha intervistato.
Dottor Cecchettin, dopo la morte di Giulia la narrazione della violenza di genere in Italia sta cambiando. Eppure in Italia ancora oggi si fa fatica a parlare di patriarcato. Perché secondo lei?
«I cambiamenti sono sempre difficili, soprattutto quando cercano di modificare equilibri di potere, come nel caso del patriarcato. Ma se si pone attenzione al tema qualcosa può cambiare. Noi l'abbiamo fatto. Siamo stati toccati da una vicenda molto dolorosa che ci ha permesso di capire l'entità del problema sociale. Parlarne aiuta tantissimo. Quando una storia è entrata in modo così pervasivo nella società c’è chi si fa qualche domanda in più per capire la vera natura di quello che è successo. La storia di Giulia forse anche dal punto di vista empatico ha attecchito più di altre perché ha coinvolto una ragazza “perbene” e uno studente universitario, non individui che vivono ai margini. Molte persone pensavano di essere immuni da certi episodi, come il sottoscritto, e invece si ritrovano ad avere paura e a chiedersi cosa possono fare per cambiare questa situazione. Nel caso del patriarcato è difficile uscirne, sia per gli uomini che per le donne, perché siamo immersi da millenni in questo contesto culturale. Però se si affronta un percorso per uscirne, come ho fatto io che ne ho preso coscienza e potrei definirmi femminista, alla fine si trova un nuovo modo di vivere più soddisfacente».
La violenza non è solo quella fisica. Esiste anche quella economica, quella psicologica, quella fatta di controllo. Quali sono i segnali per riconoscerla? Che cosa vede ora che prima non aveva colto?
«Quando ho il privilegio di incontrare giovani nelle scuole dove racconto la mia storia da genitore, perché posso fare solo questo, mi chiedono come si può capire quando si è all'interno di una relazione tossica. Quello che posso dire dopo la mia esperienza è che c'è un fil rouge. Giulia ce l'ha fatto capire in quei 15 punti che aveva scritto in cui elencava tutti i motivi per lasciare il suo fidanzato. Ogni volta che c'è mancanza di libertà di fatto c'è violenza, dall’episodio più piccolo a quello più grande. Quando viene limitata l’indipendenza altrui secondo me bisogna considerare già questo un segnale d'allarme».
A chi chiedere aiuto? Questa intervista vuole anche essere uno strumento per aiutare chi in questo momento si riconosce in una situazione di violenza.
«A tutti quelli che si conoscono, parenti, insegnanti, amici. Senza avere il timore di essere giudicate. Dico sempre alle ragazze di non avere vergogna. So che la paura del giudizio degli altri può frenarle. E se nessuno le ascolta, chiamare il numero antiviolenza il 1522, rivolgersi a un centro antiviolenza. E alle forze dell'ordine nel caso di violenza conclamata».
Secondo recenti dati del Servizio analisi criminale della Criminalpol della Polizia la violenza è sempre più diffusa tra i giovanissimi. Viviamo anche in un periodo sociale e politico pregno di aggressività. Come intervenire? Come costruire un dialogo con loro?
«Bisogna cercare di non reagire alla violenza con violenza ma provare un nuovo modo di approcciarsi, con garbo e gentilezza. Bisognerebbe iniziare un percorso di formazione culturale che coinvolga famiglie e scuole».
Qual è lo scopo della Fondazione dedicata a Giulia che vede tra l'altro nel comitato scientifico anche Barbara Poggio, la prorettrice alle politiche di equità e diversità del nostro Ateneo?
«Il primo progetto che abbiamo inserito nello Statuto è proprio quello di fare formazione ai docenti all'interno degli istituti scolastici. C'è bisogno di far capire cosa sia l'affettività e come si manifesta la violenza di genere. In molte situazioni questa non viene riconosciuta. Quando sentiamo i giovani dire che se c'è gelosia c'è amore siamo di fronte a un romanticismo tossico. Significa che non è stato recepito il vero modo di amare. L'unico sistema per combattere questo pensiero è promuovere una cultura legata al rispetto, all'altruismo, alla bontà. Il comitato scientifico della Fondazione sta elaborando una proposta educativa che arriverà nelle scuole quanto prima. Vorremmo anche offrire borse di studio alle studentesse che vogliono intraprendere percorsi di studio scientifici. Vogliamo dare il nostro contributo per ridurre quel gap salariale che ancora adesso è uno dei problemi più grandi quando una donna si deve affrancare da una relazione tossica».
Qual è il messaggio che lancerà agli studenti e alle studentesse che incontrerà giovedì?
«Di non smettere mai di sperare. Alla loro età sono un concentrato di gioventù, vedo in loro tante aspettative, voglia di agire e di mettersi in discussione. Attese che vengono poi deluse quando si entra nel mondo del lavoro. Alcune generazioni in passato di fronte ai problemi sociali hanno semplicemente tirato dritto. Io vorrei lasciare un messaggio che vada al di là di quello della Fondazione e che riguarda la vita in generale. E cioè che quando si ha il desiderio di fare qualcosa, di essere curiosi e di voler migliorare la società bisogna farlo. Bisogna crederci, amare il posto in cui viviamo e cercare di migliorarlo».
I posti per l’incontro “In dialogo con Gino Cecchettin” in Auditorium e anche in aula 005 sono esauriti. L'evento sarà registrato e sarà possibile vederlo nei prossimi giorni sul canale youtube di Ateneo.