Si chiama Komb(w)ine ed è una nuova bevanda ottenuta fermentando insieme kombucha (a base di tè) e mosto d'uva. Un prodotto che può rappresentare una nuova categoria enologica. L’occasione per conoscere come si produce e per assaggiarla è l’incontro organizzato dal Centro Agricoltura Alimenti Ambiente – C3A in programma lunedì 19 maggio al Palazzo della Ricerca e della Conoscenza (San Michele all'Adige – Via Mach, 1). Abbiamo intervistato l’ideatore, Andrea Moser e Massimo Bertamini, docente di viticoltura e tecnica enologica speciale al C3A.
Quando la ricerca incontra la creatività, il risultato può essere sorprendente. Grazie alle conoscenze e alle competenze in enologia acquisite all’Università di Trento dove si è laureato in Ingegneria alimentare con specializzazione in Viticoltura ed enologia, Andrea Moser (nella foto a destra) ha creato una bevanda che racchiude in sé gli aromi del mosto e i sapori orientali della kombucha. Non è un vino, non è un tè, è qualcosa di diverso che prima non c’era.
Il nome “Komb(w)ine” è un gioco di parole che richiama il vino e la kombucha. «Ma non è una categoria vitivinicola», chiarisce fin da subito Moser. Si tratta di un prodotto naturalmente analcolico ottenuto mettendo assieme kombucha (bevanda fermentata a base di tè) e mosto d'uva monovarietale. Si produce con lo Scoby (Symbiotic culture of bacteria and yeast), una coltura simbiotica di batteri e lieviti che permette la fermentazione e l’eliminazione dell'alcol dal mosto d'uva fermentato dei lieviti, grazie all'azione dei batteri che lo consumano trasformandolo in acido organico. «È la fusione tra il metodo di produzione della kombucha con il mosto. Guardando al processo produttivo della kombucha, da buon enologo ho tolto zucchero e aromatizzazioni, mantenendo una base di tè verde neutra che potesse dare una struttura importante in bocca: aromi e zucchero sarebbero potuti arrivare con i mosti delle nostre uve». Da qui la collaborazione con le cantine e le aziende vitivinicole: «Quella che auspichiamo è la sinergia con i produttori di vino per l’approvvigionamento dei mosti, che caratterizzeranno il sapore della bevanda e che andranno raccolti e conservati al freddo per poi essere utilizzati durante tutto l’anno. In questo momento – prosegue Moser – abbiamo fatto delle prove con il Moscato d'Asti perché è l'unico mosto che al momento si trova in quantità e refrigerato, non fermentato ovviamente. Il prodotto contiene molte note floreali, è leggermente frizzante e acido, c’è un residuo zuccherino molto basso ed è privo di alcol. Con un risultato di grande freschezza». L’idea del komb(w)ine, racconta l’enologo, nasce dalla passione dei figli per la kombucha. Per loro la produce ormai da anni. A questo si è unito poi l’incontro professionale con Ettore Ravizza, tra i primi a portare sul mercato italiano la kombucha, anche lui presente all’incontro del 19 maggio.
A raccontarci dell’iniziativa e di come si intreccia con i programmi di didattica e ricerca del Centro Agricoltura, Alimenti e Ambiente è il professor Massimo Bertamini (nella foto a sinistra). «Al C3A siamo molto attenti a quello che succede nel mondo enologico e agroalimentare, alle nuove tendenze. C’è molto interesse sulle culture simbiotiche, i batteri e i lieviti, nonché verso queste fermentazioni alternative. Per studenti e studentesse dei nostri corsi di laurea in Viticoltura ed Enologia e in Agrifood Innovation Management, innovazioni e progetti di questo tipo servono ad arricchire la loro preparazione e aprire nuove strade per il loro futuro». A proposito di tendenze, in questo momento si parla molto di vino dealcolato. «È vero – risponde il docente – e l’idea di Andrea ci è sembrata un’ottima risposta, in termini di gusto ma anche e soprattutto di sostenibilità. Perché fare vino se poi spendere ulteriore energia per eliminare l'alcol da quello stesso vino? Tanto vale far lavorare i microrganismi, questo è un po' il concetto di base».
Andrea Moser, classe 1982, per oltre dieci anni direttore della cantina di Caldaro, la più grande cooperativa vinicola altoatesina, non è nuovo a sperimentazioni, anche coraggiose e controtendenza, per qualcuno irriverenti: dalle birre fatte con la frutta o con il lievito di vino e invecchiate in barrique, al progetto XXX (eXplore – eXperiment – eXclusive) per vini estremi di nicchia ottenuti con vinificazioni creative, fino ai temporary wine, prodotti in edizioni limitate e con vitigni regionali diversi. Nel 2022 è stato inserito da Fortune tra i 40 giovani under40 che stanno costruendo il futuro del settore enologico italiano. Per lui il percorso universitario e il percorso di ricerca che ha fatto sono stati molto importanti per ottenere questi risultati. «Io ho avuto due incontri fortunati nella mia vita: il primo con il grande tecnico Gianfranco Gallo che mi ha fatto capire quanto le basi tecniche debbano essere accurate e quanto possono essere importanti, il secondo con l’enologo Franz Haas, che purtroppo ci ha lasciato, che mi ha trasmesso un modo di pensare sempre in maniera multidisciplinare, fuori dagli schemi». Fare ricerca, innovazione, sperimentazione, in un ambito come quello dell’enologia che rappresenta un caposaldo della tradizione italiana e trentina, è possibile. «La tradizione è un'innovazione che ha avuto semplicemente fortuna – risponde Massimo Bertamini – quindi se uno si ferma anche la tradizione si ferma. Pertanto c'è bisogno di un continuo rinnovarsi e reinventarsi. Questo non è contro la tradizione, ma un modo per valorizzare le specificità territoriali».