Commentare la scomparsa di Paolo Prodi avvenuta la sera del 16 dicembre scorso limitandosi a ricordarne il ruolo di primo rettore di questo Ateneo dal 1973 al 1977 e poi di preside della Facoltà di Lettere dal 1985 al 1988 sarebbe decisamente riduttivo. Ripercorrere la storia delle sue esperienze politiche e culturali significa infatti cogliere nei suoi aspetti meno ovvi un pezzo della storia d’Italia degli ultimi settant’anni e coglierne la contraddittorietà.
Paolo Prodi, quinto di nove fratelli, figlio di un padre ingegnere di famiglia contadina, era nato a Scandiano, in provincia di Reggio Emilia, il 3 ottobre 1932. Nonostante le tante esperienze internazionali successive, la sua vita e la sua personalità sono state marcate in modo indelebile dai suoi anni di guerra, prima sfollato da ragazzino sull’appennino emiliano, poi, adolescente, tornato a Reggio con la famiglia. Agli amici - e mi onoro di essere stata tra quelli - amava raccontare la paura per aver assistito, nascosto nella boscaglia, ad un combattimento, e per essere stato messo al muro con i compagni di scuola da un gruppo di soldati tedeschi col mitra spianato, ma anche il raccapriccio per l’uccisione del suo parroco da parte dei partigiani comunisti della zona; la sua prima esperienza politica è stata dunque segnata da una vicenda di guerra civile e di vivi contrasti all’interno di una parte, quella antifascista, comunque prescelta.
In città ad attirarlo fu la vicinanza con Giuseppe Dossetti, che marcò in lui la duplice esigenza di lavorare per una politica rinnovata totalmente, ma in opposizione al Partito comunista, e per una trasformazione culturale della Chiesa cattolica. Seguendo - ma non in toto - il suggerimento di Dossetti, Prodi si iscrive quindi nel 1950 alla Facoltà di Scienze politiche e sociali dell’Università cattolica, avendo vinto una borsa di studio per il collegio Augustinianum della stessa università. Laureato in Storia moderna nel 1954, dopo un paio d’anni di assistentato volontario presso la sua Università parte per Bonn nel 1957 con una borsa di studio, per un corso annuo di perfezionamento sotto la guida di Hubert Jedin, lo storico del Concilio di Trento, al cui ricordo Paolo rimarrà costantemente fedele. Negli stessi anni si apre però un contatto con uno studioso di taglio culturale e ideologico del tutto diverso, Delio Cantimori, laico e marxista mentre Jedin - prete - era saldamente legato all’istituzione ecclesiastica. Sino alla morte Paolo rivendicherà il suo duplice discepolato scientifico nei riguardi di Jedin e Cantimori.
Negli stessi anni per Prodi inizia, ancora sulla scia di Dossetti, ma distaccato da lui, un’esperienza diversa. Si apre a Bologna, molto sottovoce, un cantiere di studi di scienze religiose estraneo all’università, che avrà per molti anni il nome assai anodino di “Centro di Documentazione”, più avanti chiarito dal sottotitolo “Istituto di Scienze Religiose”. Era una struttura voluta da Dossetti, che si proponeva di rinnovare lo studio delle discipline teologiche e storico-ecclesiastiche, ma che aveva nel suo seno una ambiguità, mai completamente risolta nonostante i molti passi compiuti in questo senso, tra comunità religiosa e struttura scientifica. Paolo ricordava volentieri la sua partecipazione alla fase eroica degli inizi, quando la sua collaborazione alla creazione della biblioteca significava anche dormire su una brandina tra i libri in arrivo e i topi non ancora scacciati. Del “Centro di Documentazione” Paolo fu membro, non senza contrasti con il suo direttore (e cognato) Giuseppe Alberigo, sino al 1972. Erano stati, come egli stesso ha scritto, “anni di grandi speranze”, soprattutto quelli del Concilio Vaticano II e del postconcilio.
Intanto, conseguita la libera docenza in Storia moderna, Prodi è dal 1962 al 1972 prima professore incaricato, poi ordinario della sua disciplina, nella facoltà di Magistero dell’Università di Bologna. Contribuisce anche alla fondazione, nel 1965, dell’Associazione di Cultura e Politica “il Mulino”. Vinta la cattedra nel 1969, nel pieno delle istanze movimentiste che coinvolgevano anche l’Università di Bologna, diviene preside della sua facoltà. Ed è questa non facile esperienza - che dura sino al 1972 - insieme a quella ormai chiusa del “Centro di Documentazione”, che lo spinge ad accettare la chiamata alla cattedra di Storia moderna presso la facoltà di Sociologia di quella che era allora la Libera Università degli Studi di Trento, e poi la elezione a Rettore dell’Ateneo sino al 1977. Il suo tentativo - fallito - era quello di creare una Università italo-germanica; gli riuscì invece di mettere in piedi un’altra realtà, fondamentale per Trento e per il ruolo culturale della città negli anni a seguire, la creazione dell’Istituto Storico Italo-Germanico, che diresse per venticinque anni, dal 1973 al 1998: una struttura di eccezionale qualità scientifica per la biblioteca - creata ex nihilo, grazie anche all’eredità dei libri di Hubert Jedin - e per gli studi che vi sono stati compiuti. Una delle battute preferite di Prodi era che “chiedere alla ‘mamma’ Università tutto il latte della cultura significa trasformarla in una grossa vacca”. Quindi l’ISIG, sigla con cui ben presto venne chiamato correntemente l’Istituto a livello internazionale, voleva integrare - non certo superare o cancellare - la realtà universitaria.
La progettualità dell’uomo e dello studioso è sempre stata eccezionale, anche se non sempre coronata da successo. Nello stesso periodo, esattamente dal 1970 al 1974, Prodi è responsabile dell’Ufficio studi e programmazione del Ministero della Pubblica Istruzione: una esperienza non fortunata, che però lo condurrà ad accettare nel 1977 una chiamata alla cattedra di Storia moderna alla Facoltà di Magistero di Roma. Durerà poco: dal 1980 al 1983 Prodi tornerà a Bologna, alla Facoltà di Lettere, e dal 1983 al 1988 sarà nuovamente a Trento, presidente del Comitato promotore della Facoltà di Lettere, presso la quale è ordinario di Storia moderna, e dal 1985 al 1988 Preside della Facoltà. Sono anni di lotta per ottenere dai docenti da lui chiamati la residenza effettiva a Trento, ma solo alcuni acconsentiranno, e il pendolarismo rimarrà - seppure ridotto - anche nell’ateneo trentino.
Le esperienze scientifiche di quegli anni negli Stati Uniti, in Francia e nel mondo germanico hanno ulteriormente contribuito a fare di Paolo Prodi una figura di primo piano della storiografia internazionale. Finalmente, nel 1988, Prodi torna a Bologna, dove resterà sino al termine del suo insegnamento, nel 2004. Nel frattempo, nel 1992 ha una breve esperienza politica nella Camera dei deputati, con la “Rete” di Leoluca Orlando. Ma di certo la sua attività scientifica - e non solo - non si era interrotta, né allora né negli anni della pensione. Non voglio qui fare un elenco delle sue monografie, che risulterebbe inutilmente lungo. I nuclei del suo sempre rinnovato rovello scientifico sono stati, sia pure nel variare degli argomenti specifici e con modificazioni nel punto di visto dello studioso, costanti negli anni: il rapporto controriforma-riforma cattolica, quello tra concilio di Trento e modernità, e, più in generale, quello, cruciale, tra potere e area del sacro. Prodi ha continuato a sostenere sino alla fine che una conoscenza - anche diretta - del potere è indispensabile per lo storico, e che l’espulsione del sacro dall’area del potere non è né necessaria né opportuna. Sono temi che ritornano in tutti i suoi libri: per citarne solo alcuni, Il sovrano pontefice. Un corpo e due anime: la monarchia papale nella prima età moderna (1982), Il sacramento del potere:il giuramento politico nella storia costituzionale dell’Occidente (1992), Una storia della giustizia: dal pluralismo dei fori al moderno dualismo tra coscienza e diritto (2000).
È giusto ricordare che le ipotesi di Paolo Prodi hanno suscitato una persistente discussione. Al costante apprezzamento per l’ampiezza delle ricerche e delle prospettive di lavoro, che ne hanno fatto senza dubbio una delle figure di storico internazionalmente noto più importanti dell’Italia del dopoguerra (oltre quanto si è detto, si ricordino qui almeno le sue qualifiche di accademico dei Lincei e di presidente della Giunta per gli studi storici), si sono accompagnate perplessità, dubbi e critiche su alcune delle soluzioni da lui proposte. Ma non c’è dubbio alcuno che a dubbi e proposte di revisione si è sempre accompagnata l’ammirazione incondizionata per il coraggio delle visioni storiografiche e delle sfide lanciate dall’uomo e dallo studioso al mondo della cultura e a quello della politica.