Quello di Francesco Verla non è un nome che si trova sui manuali di storia dell’arte. L’idea di dedicare una mostra monografica a questo pittore attivo nei primi decenni del Cinquecento, originario di Vicenza ma che ha lavorato molto anche in Trentino, potrebbe apparire velleitaria, una curiosità riservata agli addetti ai lavori. Viceversa, l’esposizione inaugurata il 7 luglio al Museo Diocesano Tridentino, e che resterà aperta fino al 6 novembre, ha l’ambizione di rivolgersi a tutti, provando a dimostrare come sia possibile coniugare una solida ricerca scientifica (nuove attribuzioni, documenti inediti, restauri…) e la capacità di comunicarne gli esiti anche ai non specialisti. Grazie innanzitutto alla tenacia della direttrice del Museo, Domenica Primerano, è stato così possibile ottenere in prestito la quasi totalità dei dipinti mobili del raro pittore, distribuiti in un allestimento sobrio ed elegante, senza fuochi d’artificio. La mostra cerca di costruire un discorso chiaro e coerente, accompagnando il visitatore dalle prime prove note fino all’ultima opera di Francesco Verla, una pala d’altare del 1520 prestata dalla Pinacoteca di Brera.
L’esposizione corona un progetto di ricerca svolto in proficua collaborazione tra il Dipartimento di Lettere e Filosofia e il Museo Diocesano. Una collaborazione che ha preso avvio significativamente in occasione di una tesi di laurea. L’ottimo studio, ricco di novità, della studentessa Ivana Gallazzini, seguita dalla direttrice, dal conservatore delle collezioni del Museo, Domizio Cattoi, e da chi scrive, ci ha convinto dell’opportunità di ridare visibilità a questo artista, sul quale esisteva un’unica, succinta monografia, scritta nel 1967 da Lionello Puppi, ancora molto utile ma obiettivamente invecchiata. Oltre a Ivana, che ha scritto la quasi totalità delle schede di catalogo, l’impresa ha così visto la collaborazione di altri professori e ricercatori dell’Università di Trento (Alessandra Galizzi Kroegel, Luca Siracusano, Giuseppe Sava) e di una affiatata squadra di altri studiosi, trentini e non: Maddalena Ferrari, Mattia Vinco, Stefania Franzoi, Mauro Lucco, Cristina Spada, Giovanni C.F. Villa.
Il momento chiave della carriera di Francesco Verla fu, nei primissimi anni del Cinquecento, un prolungato soggiorno tra Perugia e Roma. Nella città umbra frequentò la bottega di Pietro Perugino, che era allora il pittore più famoso, conteso e pagato d’Italia. Per imparare il segreto della sua “dolcezza”, della sua “bellezza nuova e più viva” (Vasari) giungevano a Perugia giovani da ogni parte d’Italia: Verla era tra loro, e di quell’insegnamento non si scordò mai più. A Roma poi, nella città di papa Borgia, si diede allo studio dell’arte antica, dei sarcofagi, delle rovine sepolte della Domus Aurea di Nerone, entusiasmandosi per quel genere di decorazioni che proprio allora venivano battezzate “grottesche”.
Una volta tornato in patria, Verla fu così tra i primi a diffondere a nord del Po quelle novità, capaci di far sembrare di colpo antiquata e legnosa la maniera dei maestri della generazione precedente. A Vicenza si assicurò un ruolo nel cantiere più importante aperto in città, quello della chiesa di San Bartolomeo, sciaguratamente distrutta nell’Ottocento. Tra 1508 e 1509 dipinse per uno degli altari una grande pala che è stata a lungo creduta perduta, ma che proprio le ricerche condotte da Ivana Gallazzini hanno consentito di ritrovare in un piccolo museo della provincia toscana, dove è giunta con altre opere appartenute al famoso antiquario fiorentino Stefano Bardini, che ne era entrato in possesso alla fine del XIX secolo.
Subito dopo, l’esistenza di Francesco Verla, come quella di tanti suoi contemporanei, fu sconvolta dalle vicende della guerra tra Repubblica di Venezia e Impero Asburgico che afflisse Vicenza e il suo contado. Legatosi ad alcune nobili famiglie filoimperiali, il pittore fu costretto a fuggire con i suoi protettori, prima in provincia, a Schio (dove lascia uno dei suoi quadri più ispirati, anch’esso in mostra), e poi, dal 1513, in Trentino. In queste terre ancora profondamente legate a una cultura figurativa di gusto gotico e orientata verso il mondo tedesco, lo stile moderno di Verla incontrerà un enorme successo: oltre che a Trento, lasciò pale d’altare e affreschi a Terlago, Seregnano, Calliano, Mori e a Rovereto, dove infine prese dimora e dove morì, ancora giovane, nel 1521. La rete di relazioni e di incontri che Verla seppe tessere in Trentino con aristocratici e sacerdoti, funzionari della corte vescovile e notai, emerge con grande vivacità nel saggio in catalogo di Domizio Cattoi, che restituisce con efficacia quell’ambiente operoso e sensibile nel quale Verla fu l’alfiere di un rinnovamento culturale e artistico, che di lì a poco avrebbe visto sbocciare i suoi frutti più gloriosi nel Magno Palazzo del principe vescovo Bernardo Clesio.