Dal suo avvio la School of innovation ha accolto circa 2mila studenti e raccolto oltre 100mila euro da privati per organizzare challenges e oltre un milione di finanziamenti da bandi di ricerca nazionali e internazionali. Ecco come un’idea contenuta in Piano strategico si è sviluppata in un progetto interdipartimentale permanente e ha trovato una nuova casa.
Un luogo fatto per stare insieme e per far nascere idee e progetti ha una forma particolare. Basta uno sguardo per riconoscerlo. È accogliente, ha colori vivaci, ha un arredo comodo che si sposta e rende facili le varie attività. Ci si sta bene e si ha voglia di tornarci. La nuova sede della School of Innovation è un po’ così. Facile immaginare che proprio lì possa nascere quel progetto importante o capitare quell’incontro che in qualche modo segnerà una svolta nella propria vita professionale.
Con l’inaugurazione della nuova sede, negli spazi completamente ristrutturati di via Tomaso Gar 16/2, la School of Innovation fa un salto di livello. Da progetto sperimentale del primo Piano strategico si conferma ora come struttura permanente – in senso sia fisico, sia formale – a servizio di tutti i dipartimenti dell’Ateneo. Lo ha sottolineato il rettore Flavio Deflorian nel suo intervento alla cerimonia di inaugurazione nei giorni scorsi: «Nel Piano Strategico di ateneo per il 2022-27 abbiamo scelto di puntare ancora sulla School of Innovation nell’ambito delle azioni per la valorizzazione delle competenze. Perché è uno strumento valido per la diffusione di competenze relazionali e creative oggi molto importanti nel mercato del lavoro».
Ma cosa significa oggi puntare sull’innovazione delle competenze? E perché è urgente? Lo abbiamo chiesto a Sandro Trento, direttore della School of Innovation.
L’innovazione tecnologica, digitale e sociale è un fattore essenziale per lo sviluppo duraturo delle imprese, delle istituzioni e del territorio. Eppure il sistema produttivo italiano soffre di un clamoroso gap di innovazione rispetto a quello dei principali paesi industriali e nei confronti degli obiettivi della strategia di Lisbona. Questo ritardo permane, nonostante i processi di ristrutturazione attivati da molte imprese negli anni passati. Basti pensare che, secondo l’Istat, nel triennio 2018-2020 solo il 50,9% delle imprese ha svolto attività innovative, introducendo sul mercato o all’interno dell’azienda, almeno un’innovazione di prodotto o di processo. Cala anche la spesa sostenuta per le attività innovative con soli 33,6 miliardi, oltre un quarto in meno rispetto ai 45,5 miliardi del 2018.
Perché in Italia produciamo ancora poca innovazione?
L’Italia investe ancora troppo poco in Ricerca e Sviluppo, l’1,4% del PIL, contro il 3 % della Germania, il 2,2% della Francia, il 3,4 della Svezia e una media UE del 2%. D’altra parte, se la produzione scientifica italiana si attesta quasi al 5% rispetto alla quota mondiale, la produzione di brevetti continua ad essere al di sotto di Paesi come Germania e Francia: 4.600 brevetti italiani depositati all’Ufficio Europeo del Brevetto nel 2020, contro i 25.954 della Germania e i 10.554 della Francia.
I nodi sono due: la ridotta dimensione media delle nostre imprese, che di fatto non hanno risorse e competenze adeguate per investire nell’innovazione e la specializzazione settoriale, in lavorazioni che in generale sono a minore contenuto tecnologico.
Il problema però è che la crescita economica in un paese avanzato come l’Italia dipende soprattutto dalla capacità di innovazione. E in un’economia di mercato un ruolo cruciale è quello svolto dagli imprenditori. L’imprenditore è la figura che intravede in certe invenzioni e innovazioni delle opportunità commerciali e di business. La tecnologia da sola non crea prodotti, non crea mercati. Serve un progetto, serve un’idea, serve chi fa impresa.
Mancano quindi imprenditori?
Sì, ne servirebbero di più, soprattutto mancano figure carismatiche, uomini e donne capaci di innovare. A vedere i dati del Global entrepreneurship index (Gei) del 2019, sembra che nella Ue ne nascano pochi. L’Italia in questo è solo penultima nella classifica europea, prima della Grecia. Anche la Germania industriale è solo 15esima. Non solo, si registra anche una complessiva stagnazione imprenditoriale, eccezion fatta per l’Europa del Nord. È necessario riattizzare la brace sotto le ceneri, con incentivi e curricula formativi dedicati. Noi pensiamo che lo spirito imprenditoriale possa essere acquisito anche con l’esperienza, con un processo di tentativi ed errori e possa essere applicato in tutti i settori.
Cosa propone il modello UniTrento per promuovere l’innovazione?
La sfida è quella di cambiare il modo di fare impresa, di entrare in nuovi mercati, di trasformare in chiave innovativa ciò che di solito viene fatto in modo tradizionale. Così è avvento anche per la nascita della School of Innovation, che non è una tradizionale Business School. All’inizio del percorso – prima con il Clab nel 2013 e poi dal 2017 con la vera e propria School – in molti c’era la preoccupazione che l’imprenditorialità non fosse una materia da insegnare. Imprenditori si nasce non si può insegnare, si diceva. Eppure quello che abbiamo fatto qui in questi anni ha rivoluzionato il modo di pensare.
La School of Innovation è nella nostra università il luogo della creatività e della contaminazione. È una struttura che può disseminare dentro l’ateneo e sul territorio un metodo di pensiero, quello della novità, della creatività, della combinazione intelligente di componenti imprenditoriali e innovative. Vogliamo che gli studenti e le studentesse di dipartimenti diversi imparino a lavorare in gruppo su progetti, su challenges, su contaminazioni. Vogliamo che escano dall’università non solo con competenze solide, ma anche con talenti e abilità sociali, creative, personali. Per questo offriamo loro occasioni per riflettere e cimentarsi in sfide imprenditoriali.