Come comunicare la malattia rara? Come avvicinare chi fa ricerca a chi attende delle risposte? Quanto contano nel percorso di cura e sperimentazione la fiducia e l’empatia tra pazienti, familiari e studiosi? Domande che Matteo Redenti, papà di Filomena, una bimba di 5 anni affetta dalla sindrome di Kabuki, ha condiviso con il team del Dipartimento Cibio che sta studiando la malattia rara di sua figlia.
Non sempre è facile spiegare la ricerca scientifica, parlare di analisi di laboratorio, di esperimenti in vitro, di tentativi e di ripartenze. E forse è ancora più difficile quando si fa ricerca su malattie rare, quelle malattie di cui ci sono pochi, a volte pochissimi casi al mondo. Sono circa ottomila quelle conosciute, altre aspettano ancora una diagnosi, alcune colpiscono meno di 5 persone per 10.000 abitanti in Europa. La sindrome di Kabuki rientra in queste ultime: un caso ogni 32mila nati circa. Si tratta di una malattia che provoca ritardo nella crescita, anomalie cranio-facciali, deficit cognitivo e, spesso, sordità e cardiopatie. Da tempo se ne conosce la causa principale: mutazioni del gene KMT2D, deputato alla codifica di una proteina coinvolta nella regolazione della cromatina, che è il complesso di proteine e acidi nucleici contenuto nelle cellule. La ricerca deve ancora fare tanta strada, però, per individuare nuovi approcci terapeutici per le persone che ne sono affette. Il gruppo di studio del Dipartimento Cibio guidato da Alessio Zippo che sta studiando proprio questa malattia con risultati incoraggianti, nelle scorse settimane ha seguito il corso "Comunicare nella ricerca e nella rarità". A tenere le lezioni, proprio Matteo Redenti, che è anche comunicatore di professione. Questo papà ha messo a disposizione dei ricercatori e delle ricercatrici la sua esperienza personale per aiutarli a comprendere quanto sia importante creare un dialogo con il mondo esterno ma anche all’interno della squadra di lavoro.
«Spesso il ricercatore è visto come qualcosa di oscuro dalla gente comune, si fa fatica a comprenderne il linguaggio», dice Redenti mentre racconta tutte le difficoltà che con la sua famiglia ha attraversato ancora prima che Filomena nascesse. Durante l’ecografia morfologica viene infatti riscontrata alla piccola un problema cardiaco. 26 giugno 2019: la ricorda bene la data. «È stato il momento in cui – spiega – la genetista ci ha dato la diagnosi. Una comunicazione asciutta, asettica, dove sono state prospettate tutte le possibilità di ciò che sarebbe accaduto da quel momento in poi». Uno tsunami impossibile gestire da soli. I primi anni di vita, Filomena li ha trascorsi tra un ricovero ospedaliero e un altro, decine di interventi al cuore, arresti cardiaci e bombole di ossigeno. Ma da quel giorno il padre decide di impegnarsi per fare sensibilizzazione sulle malattie rare, scrivere un libro (“Malato Raro… e adesso?”, il titolo) e fondare un’associazione, la Filo Raro Aps.
Da qui il corso tenuto al Dipartimento Cibio. Durato tre giorni, si è articolato su tre livelli di comunicazione: con sé stessi, con il gruppo di lavoro e verso la società, rara e non. I ricercatori e le ricercatrici hanno anche avuto esperienze dirette con persone che hanno affrontato un lungo percorso di malattia. Chi meglio di un famigliare può trasmettere le dinamiche comunicative della famiglia rara? «Chi ha una malattia rara vive una maratona, un percorso nel tempo. Ci vuole consapevolezza di questo. I genitori provano una situazione di impotenza che li accompagna sempre».
Come si può allora fare una buona comunicazione quando si parla di malattie rare e soprattutto quando bisogna comunicare con familiari e pazienti? «Quando il dialogo è con un familiare, questa persona ha alle spalle un percorso di cui subisce i passaggi, e l’unica figura che rappresenta la speranza è il ricercatore. Ci sono due tipologie di persone nell’ambito delle malattie rare, tra pazienti e familiari: quelle che vivono questa condizione come una missione, e quelle che la vivono come una punizione. Capire chi si ha davanti fa la differenza».
Redenti è convinto che una corretta comunicazione sulle malattie rare all'interno della famiglia, da parte dei medici e del personale sanitario, possa migliorare sensibilmente le cose. Un dialogo che va costruito nel tempo. «Se non c’è un canale di comunicazione fin dall’inizio con la famiglia non si può pretendere che poi un genitore metta in gioco suo figlio per una sperimentazione – ragiona Redenti – perché c’è comunque il timore di fare la scelta sbagliata. Se non ci sono una forte convinzione e anche conoscenza da parte dei familiari il rischio è che non si abbiano poi le persone con cui fare ricerca».
In che direzione sta andando oggi la ricerca, a che punto siamo secondo la sua esperienza? «Secondo me siamo ad un buon punto. In molti progetti di ricerca l’ambito è complesso perché ci si concentra sull’aspetto neurologico, e valutare l’efficacia è molto complicato. Gli studi che fanno al Dipartimento Cibio sono focalizzati invece sulla parte motoria e metabolica, l’approccio è misurabile, e questo ha una ricaduta sulle famiglie importante». Quella di Kabuki è una delle sindromi che può essere modello per risolverne decine di altre. Elemento che tiene accesa la speranza. Redenti, tramite diverse raccolte fondi per sostenere la ricerca, ha aperto un hub pediatrico sulle malattie rare all’ospedale Bambino Gesù di Roma. «Può essere un asset strategico quando si arriva alla fase del trial clinico, a servizio anche dei risultati degli studi che sta facendo l’Università di Trento».