Ognuno e ognuna di noi lascia sul web una miriade di informazioni. Profili social, blog, interazioni, commenti, recensioni e molto altro. Tutto questo rappresenta un patrimonio ricchissimo per chi si occupa di risorse umane e recruiting: quello che si trova online può infatti raccontare molto di più rispetto a curriculum e lettere di motivazione. Gestire la nostra presenza online curando le informazioni che restituiscono i motori di ricerca è quindi fondamentale anche da un punto di vista professionale.
Come valorizzare quindi la propria web reputation e il proprio self branding? Paolo Bonafede, docente di Filosofia dell'educazione e Pedagogia della società digitale al Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento, ci aiuta a cogliere le diverse sfaccettature di questi due importanti elementi per imparare a gestirli al meglio.
Si parla molto di web reputation e self branding. Cosa si intende esattamente con questi due termini?
«La web reputation è l’insieme delle singole opinioni che le persone esprimono online su un individuo, un’azienda, un marchio. Il risultato è molto spesso espresso in rating, in follower, in reaction. Tutto questo produce informazioni su un brand o su una persona disponibili su Internet.
Questo risultato dipende in parte dalle operazioni di self branding che ciascuno di noi può mettere in campo. È quel lavoro strategico che punta all’acquisizione di un ritorno economico attraverso la gestione delle relazioni sociali – ciò che classicamente veniva chiamato “capitale sociale”. Il self branding può quindi diventare un investimento in relazioni sociali nei contesti digitali e reali con rendimento atteso per l’acquisizione di una reputazione».
I contenuti che parlano di noi sul web dipendono solo in parte da noi stessi. Spesso sono il frutto di azioni di altri e talvolta non ne siamo neanche a conoscenza. Come si può monitorare la propria web reputation?
«La gestione della web reputation non può essere lasciata al caso: va studiata con attenzione, analizzata e talvolta può addirittura servire l’intervento di esperti in materia. Occorre innanzitutto utilizzare strumenti per monitorarla, cioè per tenere traccia di ciò che viene detto su di noi o sulla nostra azienda. Occorre imparare a usare in maniera profittevole servizi come Google Alerts, Social Mention o Talkwalker Alerts, pensati per avvisare rispetto alle conversazioni che avvengono su di noi. Le realtà più strutturate utilizzano i Crm, Customer Relationship Management, che consentono di archiviare e organizzare informazioni dettagliate utilizzabili per offrire un’esperienza personalizzata e mirata ai clienti, senza considerare poi l’importanza assunta dai servizi di gestione delle recensioni e dei rating».
Quando siamo noi invece a volerci promuovere, come possiamo creare un buon self branding?
«Dobbiamo capire innanzitutto come vogliamo posizionarci all’interno delle piattaforme e degli ambienti nei quali vogliamo essere presenti. Questo è l’aspetto pro-attivo che riguarda le strategie di self branding. Serve creare e condividere contenuti di qualità, per mostrare la propria competenza e generare fiducia nel pubblico. Per chi volesse investire maggiormente su questo tipo di attività, può essere importante usare servizi Seo – Search Engine Optimization – utili per ottimizzare la propria collocazione nei motori di ricerca e garantire che i propri contenuti siano facilmente rintracciabili online. Inoltre serve interagire, partecipando alle discussioni e condividendo contenuti sui social media».
Spesso si dice però che in questi strumenti nascono logiche anti-pedagogiche. In cosa consistono e come possono essere superate?
«La natura ibrida dello spazio dedicato all’informazione integra il mondo reale e il mondo digitale all’interno della stessa rete. Questo modifica però le dinamiche identitarie e sociali e rende le tecnologie e l’ambiente digitale allo stesso tempo opportunità e problema.
La sfera comunicativa digitale forma in modo informale i giovani. Essendo però colonizzata da criteri economici, i principi promossi sono agli antipodi rispetto alle logiche educative delle classiche agenzie come scuola e famiglia. In questo modo viene a crearsi un cortocircuito, specie in ambito relazionale. Il legame sociale diviene quindi un dato ambientale più che un’esigenza educativa ed etica. Nella network society siamo strutturalmente connessi, senza che questa connessione rappresenti però una reale occasione di incontro».
C’è quindi discrepanza tra presenza strategica e presenza autentica. È possibile far convivere queste due dimensioni?
«Nei soggetti in formazione, compresi studentesse e studenti universitari, la gestione del sé assume spesso i contorni di un’attività manageriale guidata da strategie di marketing e dalla quantificazione delle interazioni. In questo modo, il soggetto-utente di un determinato profilo social diventa prodotto, che esprime e condivide sé stesso per suscitare reazioni immediate di apprezzamento.
Bisognerebbe invece integrare un self branding strategico con un self branding autentico. Per fare ciò occorre dedicarsi maggiormente alla ricerca del vero “sé” affinché la promozione della propria immagine non schiacci l’esplorazione e la possibilità di avviare nuovi cammini formativi e professionali».