Negli ultimi anni, la storia – o, meglio, la divulgazione della storia – sta vivendo una nuova giovinezza attraverso il digitale e in particolare i social network. Se fino a qualche anno fa la ricerca storica era coltivata negli archivi e divulgata tramite eventi quasi esclusivamente accademici, oggi basta aprire un qualunque social per essere raggiunti da contenuti che hanno in qualche modo a che fare con il passato. Cosa cambia, quindi, per chi si occupa della storia in modo professionale? Se ne parlerà lunedì prossimo a Palazzo Prodi in un seminario organizzato nell’ambito del corso di dottorato in "Culture d'Europa. Ambiente, spazi, storie, arti, idee". Il relatore è Francesco Filippi, storico della mentalità, autore, tra gli altri, di “Guida semiseria per aspiranti storici social” (Bollati Boringhieri).
Dottor Filippi, perché l’attività di divulgazione è una parte così importante nel mestiere dello storico?
«La ricerca storica ha un forte carattere divulgativo. La storia ha una funzione sociale non solo nello studio del passato, ma anche nella lettura del presente e nella costruzione di un’ipotesi di futuro. Chi si occupa di storia, e in particolare di divulgazione della storia, deve riuscire a far comprendere al pubblico che la società in cui viviamo è il frutto di una sedimentazione plurimillenaria. La storia è letteralmente il DNA sociale tramite cui non solo affrontiamo il presente ma anche costruiamo il futuro».
In un mondo digitale anche il mestiere dello storico è mutato?
«Il web 2.0 ha permesso la nascita dei social network e di conseguenza un’interazione maggiore tra gli utenti. Ma ha anche posto due grandi temi a chi si occupa di storia. Il web è un contenitore di fonti, un archivio, cioè un luogo in cui si caricano fonti primarie e secondarie, come le testimonianze. Allo stesso tempo, il web è anche produttore di fonti, cioè un luogo in cui le fonti vengono costruite. Sul web le fonti possono però essere anche sofisticate e questo porta alla creazione di fake news. Questo in realtà non deve preoccuparci troppo, perché chi si occupa di storia ha sempre dovuto interfacciarsi con fonti fittizie, è parte del mestiere. Il problema è che oggi abbiamo una quantità enorme di fonti sofisticate. La sociologia americana l’ha definita post truth, qualcosa che va oltre la possibilità di comprendere con precisione la verità del reale: in una discussione relativa a un fatto o una notizia, la verità viene considerata una questione di secondaria importanza».
Secondo la sua esperienza, quali accortezze dovrebbe adottare chi fa divulgazione sulle piattaforme social?
«Deve applicare il metodo storico al nuovo mondo. Non dobbiamo pensare a internet come un nemico ma come un mondo che ancora non conosciamo. Il web moltiplica i parametri da prendere in considerazione e il rischio è perdersi nel mare delle possibilità. Proprio per questo serve la metodologia della ricerca storica».
Quale canale social è più utile per la ricerca storica? Lei quale utilizza?
«Tutti sono ottimi canali per fare una buona divulgazione storica e tutti i canali social permettono un’interazione più o meno alta tra chi parla e chi ascolta: penso a You Tube, i podcast di Spotify, le pagine di Facebook, i profili Instagram e Tik Tok per le persone più giovani.
Per quanto mi riguarda, il primo mezzo che uso per divulgare rimane il libro, d’altronde sono un autore e saggista. Ma sono attivo anche su Instagram, perché permette di raggiungere varie fasce d’età e non è passivizzante come Tik Tok o ingessato come determinati gruppi Facebook. Penso che il futuro sarà nella triade TikTok, Instagram e Facebook».
Come gestisce l’interazione con chi segue i social?
«Mi occupo di temi molto polarizzanti, su cui le persone normalmente sono totalmente d’accordo o totalmente in disaccordo. Questo tipo di attività è necessaria quando si ha uno scollamento tra la realtà dei fatti e la mentalità comune. Occorre quindi fare il cosiddetto debunking, cioè verificare l’attendibilità delle fonti e metterle in dubbio».
Qual è il confine tra attualità e storia?
«Il confine è dato dal modo in cui si affronta l’argomento: un discorso pubblico dovrebbe mettere a confronto passato e presente proprio per rendere intelligibile l’attualità. Nel momento in cui un politico americano parla di “ritorno al fascismo”, dobbiamo interrogarci su cosa si intenda con quel termine e attualizzare i richiami storici per inserirsi dentro un discorso che ha bisogno del passato per comprendere il presente».
Per lasciarci, come si dovrebbe muovere la nuova generazione di storici?
«Mi piacerebbe che si muovesse con confidenza, familiarità e competenza. Sono tre definizioni che sono mancate alle generazioni che le hanno precedute. Il mondo accademico ha spesso abdicato al suo ruolo sociale pensando che il web non fosse il suo luogo. Ma precludersi la possibilità di esplorare la via online, l’”onlife”, è come non voler imparare una lingua straniera. Oggi non riesco ad immaginare uno storico che non conosca l’inglese, la stessa logica dovrebbe applicarsi al web».