Immagina quando, fatte delle analisi mediche, hai un appuntamento per una visita specialistica. Potrebbe essere qualcosa di serio, o forse no. Immagina di dover fare una prima visita in un centro di salute mentale, il tuo primo incontro con uno psichiatra. Immagina di confrontarti con qualcuno a cui vuoi dire di aver compreso chi sei o chi vorresti essere. Sono scenari comuni. Quale competenza dovrebbe avere la persona che incontri? Lo abbiamo chiesto a Maria Micaela Coppola, docente al Dipartimento di Psicologia e Scienze Cognitive dell'Università di Trento ed esperta di medicina narrativa. Oltre a lei, abbiamo intervistato Martina Maccarana che studia Psicologia clinica a UniTrento e lo scorso febbraio ha partecipato a un percorso sulla medicina narrativa organizzato in collaborazione con il dottor Rodolfo D’Agostini dell’Unità Operativa di Psichiatria Alto Garda, Ledro e Giudicarie, presso il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura dell’Ospedale Civile di Arco. La medicina narrativa è stata introdotta nei primi anni duemila da Rita Charon, medica internista, fondatrice e direttrice esecutiva del Programma di Narrative Medicine della Columbia University di New York. Charon pensa alla medicina narrativa come a una pratica clinica fortificata dalla competenza narrativa.
Professoressa Coppola, cos’è la competenza narrativa?
«La competenza narrativa è un elemento cardine in campo clinico, ma non solo. Rita Charon la definisce come la capacità di riconoscere, assorbire, interpretare le storie degli altri e di utilizzare la conoscenza che si crea a partire da questo scambio narrativo per rafforzare l’alleanza terapeutica e, più in generale, il senso di affiliazione. Secondo Charon, oltre alla conoscenza bio-medica e alle competenze più strettamente specialistiche della professione, chi lavora in ambito clinico deve sapere ascoltare con attenzione le narrazioni di chi ha davanti, cogliendone la complessità, interpretando silenzi e ambiguità, per poter agire in funzione di uno scopo comune. La condivisione dell’obiettivo terapeutico passa anche attraverso la condivisione di storie, paure, emozioni, esperienza dei sintomi».
Perché serve rafforzare la competenza narrativa?
«Questa competenza è essenziale anche al di fuori del rapporto tra personale medico e paziente: penso sia cruciale in tutti quei campi in cui c’è esposizione alle storie degli altri. Per questo non può essere affidata al caso o alla personalità del singolo professionista. Basti pensare a chi lavora in ambito medico, psichiatrico o psicologico: avrà a che fare con diversi tipi di testi da interpretare – un referto, una scansione, un’analisi, ma anche il racconto dell’esperienza soggettiva del paziente. Quest’ultima non sarà raccontata nella stessa maniera: c’è chi condivide tutti i dettagli dai primi sintomi alla diagnosi letta su internet, c’è chi fa un resoconto caotico ed emotivo, c’è chi si chiude in un mutismo ostinato. Serve la capacità di mettere insieme tutti questi testi, di dare loro un senso e di comunicare le proprie conclusioni. Bisogna saper ascoltare, guardare negli occhi, creare una connessione, in questo modo aumenta la probabilità che ci sia adesione a una strategia comune. In questo campo sentiamo parlare di alleanza terapeutica o, fuori dell’ambito clinico, di affiliazione. Ecco perché la competenza narrativa non può essere lasciata al caso: deve essere formata e rafforzata. Questo è lo scopo dei laboratori di competenza narrativa. E l’Università di Trento valorizza questo aspetto, come dimostra l’attivazione di insegnamenti legati alla medicina narrativa al Dipartimento di Psicologia e Scienze cognitive, al Centro interdipartimentale di Scienze mediche e, presto, al Centro linguistico di Ateneo».
Come funzionano i laboratori di medicina narrativa?
«Nei nostri laboratori facciamo lavorare gli studenti e le studentesse a partire da alcuni testi: una poesia, un dipinto, una canzone. Ci diamo del tempo per osservare, con attenzione. E poi cominciamo a condividere le nostre osservazioni a partire da delle domande guida: cosa vedi? Che suoni senti? Come ti fa sentire? Attraverso la condivisione continuiamo ad osservare. Allora il testo comincia a cambiare davanti ai nostri occhi: ci confrontiamo con punti di vista soggettivi, anche molto diversi dal nostro. Successivamente, facciamo un’attività di ‘scrittura all’ombra del testo’: a partire da un incipit, invito la classe a scrivere di getto, in un tempo molto breve di 3-5 minuti. Infine, si legge quello che si è scritto, senza modifiche o introduzioni. E la classe ascolta e commenta quel testo, lo ‘onora’, direbbe Charon, individuando immagini, parole, ritmi. Si attiva un processo di scoperta, attraverso la scrittura e attraverso l’ascolto che gli altri ci donano».
Martina Maccarana, a febbraio 2024 lei ha partecipato a un laboratorio di medicina narrativa organizzato presso il Servizio psichiatrico di Diagnosi e Cura dell’Ospedale civile di Arco, in collaborazione con il dottor Rodolfo D’Agostini, dirigente medico psichiatra e psicoterapeuta, e la professoressa Coppola. Come erano organizzati gli incontri?
«Abbiamo lavorato con un gruppo di sei pazienti. Abbiamo proposto tre attività: nella prima dovevamo pensare a due aggettivi che ci descrivessero in modo da presentarci e poi dire come ci sentivamo; poi abbiamo proposto il testo di una canzone, tradotta in italiano ("Ten More Days" di Avicii). L’abbiamo letto in silenzio e poi ad alta voce. È un testo molto bello che parla di speranza e disperazione. Poi abbiamo ascoltato la canzone e ci siamo confrontati sulle emozioni e i pensieri che ci suscitava: come ti fa sentire? Cosa aggiunge la musica? L’ultima attività è stata di scrittura a partire dalla frase “ancora dieci giorni e…”. Sempre noi e i/le degenti, insieme. Un utente ha scritto “tra dieci giorni sarò ancora qui;, un’altra ha scritto “ancora dieci giorni e vedrò mia sorella”; un altro utente ha scritto “ancora dieci giorni e potrò uscire”, anche se poi abbiamo capito che non sarebbe andata così».
Cosa le ha lasciato questa esperienza?
«È stata un’esperienza arricchente e utile per la mia professione. Entri in un posto come questo con un po’ di agitazione, per me era la prima volta, e vedi che c’è una ragazza uguale a te, un signore che somiglia a tuo padre. Stessa età, una storia diversa. Poi sì, altri a vederli o sentirli parlare, si capisce che attraversano un periodo complicato. Per noi è stata davvero un’esperienza utile perché, lo sappiamo, c’è ancora un forte stigma nei confronti di chi ha una malattia mentale».