L’etnografia è considerata la madre di tutti i metodi di ricerca qualitativi, attraverso i quali è possibile comprendere le esperienze di vita quotidiana delle persone per arrivare a una narrazione a più voci della ricerca fatta sul campo. Dove per "campo" si intende una varietà di contesti, con cui le persone si relazionano, mentre questi evolvono e mutano nel tempo. È tanto altro l’etnografia, ma partiamo da qui con l’intervista a Chiara Bassetti, docente di metodi qualitativi al Dipartimento di Sociologia e Ricerca sociale. UniTrentoMag l’ha incontrata a margine della conferenza ERQ - Etnografia e ricerca qualitativa, che ha visto più di 300 partecipanti, provenienti da 25 paesi, confrontarsi su diversi filoni di ricerca, alle prese con strumenti e metodi che sono propri dell’etnografia. Per dirne alcuni: osservazione partecipante, interviste in profondità, storie di vita.
Cosa si intende quando si parla di contesti? Sono ambienti lavorativi: pensiamo a un ufficio pubblico dove l’organizzazione è tradizionalmente verticale. Guardiamo meglio, al microscopio e al rallentatore: quali sono gli elementi che lo caratterizzano? Pensiamo a una piccola start-up che brulica di innovazione - è sempre così? - o al reparto produttivo di una multinazionale. Sono ambienti di cura: pensiamo all'esperienza di ricovero in una residenza sanitaria assistenziale (rsa). Come funziona? Di cos’è fatto questo ambiente? Ci sono persone anziane, c’è il personale che fa assistenza, chi si occupa di lavare, cambiare, movimentare, ascoltare. Tutti hanno una storia, una voce, un modo di interagire e socializzare. Sono luoghi dell’abitare: nel quartiere di una grande città in trasformazione, in un piccolo borgo che riduce l’offerta di servizi essenziali. Scuole, ambulatori medici, trasporti pubblici. Queste ricerche sul campo, per chi fa etnografia, attraversano la complessità di un contesto che è sociale e culturale tanto quanto storico e materiale. Un contesto che cambia, conservando al contempo vecchi frammenti. Sono lavori di ricerca di lunga durata che riguardano temi su cui da sempre la sociologia e l’antropologia pongono attenzione - le migrazioni, ad esempio. Altri riguardano temi emergenti. «Uno di questi, su cui molte ricercatrici e ricercatori stanno lavorando, è quello della salute mentale, delle neurodiversità e delle disabilità», racconta Bassetti.
«Il metodo principale dell’etnografia è l’osservazione partecipante. Riguarda l’interazione con gli altri, il coinvolgimento nella loro vita quotidiana, l’esperirla in prima persona, seppure solo in parte, anche a livello sensoriale, quotidiano, dell’essere un corpo umano in un certo contesto che è sia fenomenologico che sociale. Questo è un caposaldo dell’etnografia che può perdersi quando si trasforma in osservazione “pura”, distaccata – prosegue la professoressa Bassetti – o concludersi in un buon lavoro, quando cerca di rappresentare tutte le ragioni delle parti in gioco, anche se in conflitto tra loro. Quando ne fa emergere la logica pratica che c’è dietro a quello che fa ogni gruppo sociale, per dirla con Pierre Bourdieu, uno dei più importanti sociologi della seconda metà del ‘900».
Oltre ai temi emergenti, Chiara Bassetti segnala una sorta di ibridazione o, in altre parole, un’alleanza positiva tra antropologia, sociologia – dove l’etnografia è di casa - e altre discipline: l’ingegneria informatica, la medicina, gli studi urbani e, in anni più recenti, la giurisprudenza e gli studi legali. I campi di ricerca sono i luoghi di lavoro «dove all'aumentare della tecnologia - dalle conversazioni da remoto all'intelligenza artificiale - due mondi si sono incontrati: la Human Computer Interaction e l’etnografia». Sono gli ospedali, i centri di salute mentale, le carceri. Tutti, riguardati come ambienti di lavoro, di cura o di contenzione. «C’è tutto un apparato metodologico, di formazione delle ricercatrici e dei ricercatori, che permette loro di dialogare in maniera attenta con le persone, consegnando talvolta, ai decisori politici o ai manager, indirizzi di policy», conclude la professoressa.
L’immagine che abbiamo di chi fa ricerca etnografica è quella di un taccuino. Una penna, meglio due, e un quaderno in cui annotare osservazioni e dettagli, appunti che fissano ciò che viene detto, riformulato o negoziato durante le interazioni quotidiane. Nel tempo si sono aggiunti altri strumenti, come una macchina fotografia e un registratore. Oggi il taccuino rimane, ma lo smartphone ha la comodità di tenere insieme molte funzioni. Ecco che l’ibridazione, anche negli attrezzi del mestiere, sembra essere la strada.




