Alla Facoltà di Giurisprudenza, nell’ambito del corso di Diritto dell’ambiente. È qui che il presidente della Fondazione Stava 1985, Graziano Lucchi, e Carlo Ancona, il giudice istruttore nel procedimento penale che decise sul caso, hanno spiegato a un’aula affollata di giovani genesi, cause e responsabilità di quella colata di fango che 40 anni fa in Trentino uccise persone e portò distruzione. In realtà, le loro parole potrebbero essere pronunciate in ogni altro luogo e contesto perché per incidenti industriali si continua a morire in tutto il mondo. E perché Stava rischia di essere una lezione mancata.
Calcolati per difetto, sono oltre 106 gli incidenti in discariche di miniera rilevati dopo il disastro della Val di Stava. Un dato che emerge dalle slide presentate a lezione. Il numero comprende crolli totali, come quello del bacino di decantazione Fundão a monte di Bento Rodrigues in Brasile, o crolli parziali, come quello del bacino di Merriespruit in Sud Africa.
Perché ciò che successe a Stava – e questo è stato ribadito con forza – fu un vero e proprio incidente. La colata di fango causò gravi danni materiali e ambientali e la morte di 268 vite umane di 64 comuni e undici regioni d’Italia. La causa? Il crollo dei bacini di decantazione della discarica della miniera di fluorite di Prestavèl. Un tema attuale nel nostro Paese dove, secondo l’Inventario nazionale delle strutture di deposito di rifiuti estrattivi chiuse o abbandonate effettuato da Ispra, se ne contano 650.
Salute e ambiente restano dunque tuttora in pericolo. Così come resta difficile trovare un equilibrio tra essi e gli interessi economici.
«Al di là delle azioni e omissioni penalmente rilevanti, concorsero al disastro di Stava una serie di comportamenti che vanno oltre la sfera giuridica e si caratterizzano principalmente nell’aver anteposto alla sicurezza dei terzi la redditività economica degli impianti sia da parte delle società concessionarie che degli Enti pubblici istituzionalmente preposti alla tutela del territorio e della sicurezza delle popolazioni», ammonisce Fondazione Stava 1985.
Studentesse e studenti del corso di Diritto dell’ambiente di Antonio Cassatella, professore di Diritto amministrativo e pubblico alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Trento, seguono con attenzione. Un buon numero di loro, la quasi totalità di chi proviene da altre parti d’Italia, non sa nulla di ciò che successe nella miniera di fluorite di Prestavèl. A volte è solo un nome citato per dire a cosa possono portare fenomeni climatici estremi. Fondazione Stava 1985 attraverso la campagna #NoNaturalDisaster intende fare chiarezza e anche cambiare la terminologia per mostrare che, mentre alcuni pericoli sono naturali e inevitabili, i disastri che ne risultano sono quasi sempre causati da azioni e decisioni umane (fonte: Ufficio delle Nazioni unite per la riduzione del rischio di disastri).
Genesi, cause e responsabilità sono state spiegate sulla base delle sentenze del procedimento penale e degli atti dell’inchiesta ministeriale. Sono stati affrontati gli aspetti legati alla responsabilità civile e d’impresa e alla mancata coscienza delle responsabilità personali che hanno generato la catastrofe.
La Commissione ministeriale d’inchiesta e i periti nominati dal Tribunale di Trento hanno accertato che “tutto l’impianto di decantazione costituiva una continua minaccia incombente sulla vallata”. E ancora: “L’impianto è crollato essenzialmente perché progettato, costruito, gestito in modo da non offrire quei margini di sicurezza che la società civile si attende da opere che possono mettere a repentaglio l’esistenza di intere comunità umane. L’argine superiore in particolare era mal fondato, mal drenato, staticamente al limite. Non poteva che crollare alla minima modifica delle sue precarie condizioni di equilibrio”.
Il processo di primo grado si svolse a Trento e si concluse l’8 luglio 1988 con la condanna di 10 imputati giudicati colpevoli dei reati di disastro colposo e omicidio colposo plurimo. Il procedimento penale si è concluso dopo altri 4 gradi di giudizio con la seconda sentenza della Corte di Cassazione, emessa il 22 giugno 1992, che ha confermato le condanne pronunciate in primo grado. Le pene di reclusione sono state ridotte e condonate nel corso dei vari gradi di giudizio. Nessuno dei condannati ha scontato la pena detentiva.




