Dal 13 febbraio al 4 aprile 2019 la Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Trento ospita Meeting the expert, un ciclo di seminari organizzati da Carlo Casonato e Simone Penasa nell’ambito del Modulo Jean Monnet Biolaw: Teaching European Law and Life Sciences (BIOTELL) 2017 – 2020. L’incontro del 13 marzo, promosso in collaborazione con l’Ordine dei Medici di Trento, è dedicato alla presentazione della monografia La salute sostenibile (Giappichelli, 2018). Uno dei relatori è il professor Renato Balduzzi, ordinario di diritto costituzionale presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, che ha accettato di rispondere a qualche domanda. Il professor Balduzzi, esperto di diritto costituzionale della salute e di diritto sanitario, è stato ministro della Salute e componente del Consiglio Superiore della Magistratura.
Lo scorso dicembre, il nostro Servizio sanitario nazionale (SSN) ha compiuto 40 anni. Si tratta di un traguardo importante, un'occasione per fare un bilancio del passato e tracciare nuovi obiettivi per il futuro. Professor Balduzzi, qual è, secondo lei, lo stato attuale di salute del nostro SSN, anche in confronto con gli altri ordinamenti europei?
Il confronto con gli altri ordinamenti europei (quello con il sistema statunitense è sin troppo a nostro favore…) porta a un risultato che sarebbe bene socializzare di più: il sistema italiano offre un livello di tutela significativamente più elevato, quantitativamente e qualitativamente, rispetto ad altri contesti comparabili e, allo stesso tempo, spende significativamente di meno.
Da un lato, le indagini internazionali riconoscono che il SSN concorre in misura importante all’elevata aspettativa di vita raggiunta dal nostro Paese, dall’altro evidenziano la capacità di impiegare in modo complessivamente efficiente le risorse (non così larghe) messe a disposizione.
Qualcuno potrebbe dire che il giudizio positivo deve fare i conti con una grande variabilità territoriale. Verissimo, ma le differenze tra territori non sono il prodotto del sistema, bensì una condizione di partenza che il nostro modello contrasta lungo la strada tracciata dall’art. 32 della Costituzione ["La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell'individuo e interesse della collettività…" ndr] letto alla luce dell’art. 3.2 della Costituzione. Nella sanità questo vuol dire adottare un modello fondato sui principi di universalità dei destinatari, globalità delle coperture assistenziali, equità nell’accesso, finanziamento attraverso la fiscalità generale e, non ultimo, appropriatezza delle prestazioni.
La natura ‘nazionale’ del nostro sistema sanitario sta in queste coordinate di base, che indicano finalità e limiti imposti tanto allo Stato quanto alle Regioni. Tra gli autori di questa “pagina ampiamente positiva” della storia repubblicana – prendendo a prestito le parole del Capo dello Stato pronunciate nell’ambito di un convegno celebrativo dei quarant’anni del SSN – vanno ricordati gli operatori della sanità, che rappresentano una componente fondamentale della comunità nazionale e un fattore decisivo per la tenuta del sistema. Oggi, con la fisiologica e graduale uscita dall’età lavorativa della “generazione della 833” [assunzioni a seguito della legge 833/78 ndr] di medici, infermieri, amministratori del SSN, uno degli obiettivi strategici è curare il passaggio di testimone.
La (presente e futura) sostenibilità del Servizio sanitario rappresenta sicuramente la sfida più grossa per il nostro sistema salute. Le problematiche collegate all'alto costo dei farmaci innovativi rappresentano un esempio efficace di quanto l'innovazione scientifica in medicina possa offrire nuove possibilità di cura, aprendo però difficili dilemmi sulla gestione delle priorità e sull'impiego dei fondi di spesa. Su quali strumenti può fare affidamento il nostro Servizio sanitario per fronteggiare al meglio questa sfida?
L’innovazione scientifica e tecnologica è divenuto uno dei fattori di pressione più rilevanti, che, peraltro, incide principalmente sul lato dei costi, ma pone problemi non trascurabili su quello della relazione del paziente con il proprio medico e più in generale con i servizi. Il settore farmaceutico è anche uno dei più preparati, poiché il governo del farmaco ha molti strumenti a sua disposizione. Pensiamo a come è stato affrontato l’arrivo dei farmaci antivirali di seconda generazione per l’eradicazione dell’epatite C: rapido riconoscimento dell’efficacia, stanziamento di un fondo straordinario per i medicinali innovativi, avvio dei trattamenti regione per regione, negoziazione dei prezzi, fissazione di criteri nazionali di accesso sostanzialmente improntati all’universalità, programmazione pluriennale degli accessi. È vero che si trattava di un fortunato caso nella storia della medicina, quale è sempre la scoperta di un farmaco che consente il regresso totale dalla malattia e non solo un miglioramento incrementale.
Certo, la sfida attuale è quella di far funzionare il piano nazionale in tutte le regioni e di colpire i percorsi terapeutici paralleli dovuti a comportamenti scorretti di medici che fanno le prescrizioni. Ma siamo dentro un sistema in cui il costo è sostenibile, nel giro di due o tre anni l’innovazione è stata resa disponibile a tutti, la cooperazione Stato-Regioni ha dato una buona prova di sé.
Non sempre è andata così bene. Pensiamo al caso Avastin-Lucentis sanzionato dall’Antitrust per accordi lesivi della concorrenza: il sistema ci ha messo alcuni anni ad accorgersi del problema e abbiamo poi capito anche il perché. In questo settore, a volte, il ruolo delle Regioni viene ingiustamente svalutato. L’Emilia-Romagna aveva colto il problema diversi anni prima che l’accordo anticoncorrenziale fosse scoperto dall’autorità garante e proposto una soluzione che faceva leva su di una maggiore agibilità dei prontuari regionali rispetto alle indicazioni di utilizzazione off-label. Tuttavia, in quella circostanza, lo Stato, forse con qualche precipitazione, impugnò la legge regionale e la Corte costituzionale decise probabilmente senza una adeguata istruttoria. Il risultato fu che passò del tempo, l’illecito fu poi scoperto e il legislatore nazionale si convinse infine circa l’opportunità di lasciare qualche margine in più alle Regioni nell’aggiornamento dei propri prontuari.
Il mondo dell'intelligenza artificiale sta rapidamente entrando nelle nostre vite. Questo universo, in parte ancora sconosciuto, riserva grandi promesse per il mondo della salute. Qual è la sua opinione a riguardo? Siamo pronti, anche a livello giuridico, a cambiare i paradigmi di cura esistenti per aprirci a questo mondo?
Intelligenza artificiale in sanità significa molte cose, diverse tra loro. Un conto sono le ricadute sui processi organizzativi (per esempio, l’accresciuta capacità di rilevazione ed elaborazione informatica dei dati consente oggi scelte più consapevoli di governo dei servizi), altra cosa quelle sui processi di diagnosi e cura. Queste ultime chiedono attenzione, poiché è in questo campo (robotica, dispositivi c.d. “wearable”, diagnosi virtuale, assistenza da remoto e telemedicina) che l’innovazione ci appare, in prospettiva, di portata sistemica, anche per gli interessi economici in gioco.
Lo sviluppo tecnologico non va subìto, ma governato, e il diritto serve a questo. Pensiamo alla differenza tra l’impiego di software per costruire linee guida attraverso la raccolta e razionalizzazione dei dati relativi al trattamento di un elevato numero di casi clinici, e la loro utilizzazione per la diagnosi e cura del singolo caso, con quello che può significare la combinazione dei dispositivi wearable con la diagnosi di un medico virtuale sul web. A essere messo in discussione sarebbe il ruolo del singolo professionista, proprio in quel segmento del percorso terapeutico (la valutazione e la decisione sul caso clinico concreto) che gli è demandato. Se, come pare, le utilizzazioni in sanità dell’intelligenza artificiale sembrano orientarsi sull’accesso diretto di ciascuno di noi alle nuove tecnologie, regolare giuridicamente la relazione terapeutica e i percorsi diagnostico-terapeutici può permettere di ridurre il rischio per il paziente e anche per il medico.