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Formazione

Da Kinshasa a Cape Town

Forme di scambio culturale. Conversazione con l’antropologo Stefano Allovio

19 ottobre 2020
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 Elena Franchi
Maurizio Giangiulio
di Elena Franchi e Maurizio Giangiulio
E. Franchi è ricercatrice di Storia greca, M. Giangiulio è professore ordinario di Storia greca e coordinatore del Centro di Alti Studi Umanistici (CeASUm). Fanno parte del Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento.

Cosa accade quando due culture si incontrano? In quali forme si condizionano a vicenda? Fino a che punto sono attivi e creativi i processi di acculturazione? Di questo e di altro si è dibattuto al webinar Sul campo e ritorno: forme di scambio culturale, lo scorso 22 settembre. Sono intervenuti esperti di antropologia culturale e di teoria della cultura. L’iniziativa era rivolta ai dottorandi del dottorato internazionale “Forme dello scambio culturale”, istituito nel contesto del Progetto di eccellenza finanziato dal MIUR insieme al il Centro di Alti Studi Umanistici (CeASUm) del Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento. Abbiamo intervistato uno dei relatori, il professor Stefano Allovio dell’Università di Milano. 

Lei ha svolto ricerche sul campo fra i Medje Mangbetu, nella Provincia Orientale della Repubblica Democratica del Congo. In quali forme le dinamiche coloniali hanno inciso sui sistemi indigeni di alleanze interetniche?

Le ricerche che anni fa condussi nella foresta del Congo si incentrarono sullo studio delle modalità di interazione e costruzione di alleanze fra gruppi differenti, e per certi aspetti contrapposti, organizzate a partire dalla comune partecipazione a rituali di circoncisione. Mi parve strano, agli esordi della ricerca, constatare che i bambini venissero radunati e sottoposti a uno specifico rito di passaggio non tanto per rafforzare un sentimento di appartenenza connesso a un gruppo corporato, quanto per tessere relazioni durature con bambini di altri gruppi etnici che sarebbero diventati, in tal modo, i loro “fratelli di Stefano Alloviosangue”. Ciò che pensavo potesse essere un evento rituale iniziatico e identitario era in realtà un evento rituale funzionale a costruire ed estendere forti legami con estranei, concettualizzati attraverso il linguaggio della parentela spirituale. 

Oscillare fra la ricerca etnografica nella Repubblica Democratica del Congo e la ricerca archivistica-bibliografica a Bruxelles mi permise di ricostruire, in termini diacronici, l’evoluzione delle pratiche rituali e dell’organizzazione sociale dei gruppi coinvolti in questa strana alleanza attraverso la circoncisione e verificare come, per molti gruppi della regione, la logica dell’iniziazione avesse lasciato spazio alla logica dell’alleanza proprio in epoca coloniale. Con l’arrivo dei belgi gli insediamenti furono spostati lungo le vie di comunicazione, la forza lavoro fu costretta a migrare all’interno del paese e si diffuse ovunque il sistema scolastico occidentale. Questi e altri fattori di matrice coloniale rappresentarono veri impedimenti all’organizzazione di rituali iniziatici pensati per specifici gruppi radicati in specifiche località. Le dinamiche coloniali incentivarono le alleanze interetniche e la creatività indigena si esercitò escogitando nuove forme aggregative dettate dal bisogno. 

Più recentemente ha condotto ricerche etnografiche anche in contesto urbano, a Kinshasa (Repubblica Democratica del Congo). Ha riscontrato forme di scambio culturali significative?

Kinshasa è una megalopoli di recente costituzione. Molte municipalità periferiche della grande conurbazione sono abitate interamente da immigrati di prima e seconda generazione giunti dall’interno rurale negli ultimi decenni. Se nella Provincia Orientale le dinamiche coloniali portarono a riformulare i riti di passaggio all’età adulta al fine di rimodellare le alleanze interetniche, nella capitale Kinshasa le dinamiche di urbanizzazione portarono i nuovi abitanti ad aggregarsi in gruppi mutualistici (società di mutuo soccorso) necessari a sopperire sia alle solide reti familiari del villaggio, sia all’esiguo, quando non inesistente, stato sociale del nuovo Congo-Zaire indipendente. Insomma, che si tratti di un tessuto sociale lacerato dalle dinamiche coloniali o di un tessuto sociale messo a dura prova dalle dinamiche di urbanizzazione postcoloniale, mi è sembrato interessante indagare il continuum di creatività sociale nel riformulare reti di supporto e di reciproco aiuto, reti spesso indipendenti dalla parentela.

Quello che ho potuto verificare è che lo scambio culturale non si risolve soltanto nei termini di una nuova creatività interetnica. Lo stesso incontro fra le logiche di villaggio e le istituzioni urbane determina scambi culturali. Per esempio, a Kinshasa, ho rintracciato, nascoste fra le pieghe di una pervasiva tendenza a costituire ONG, tentativi di preservare la tradizionale solidarietà espressa nelle occasioni funebri. Altro esempio è rappresentato dalla trasformazione dei nuclei familiari in Fondazioni giuridicamente riconosciute e necessarie soltanto a difendersi dalle logiche tradizionali della matrilinearità, molto diffusa nella regione.

Da qualche anno sta conducendo ricerche a Cape Town (Sudafrica). Si tratta di nuovi interessi o si possono rilevare elementi di continuità con le ricerche precedenti? Che ruolo gioca la questione migratoria in questi studi?

Ritengo che ci siano elementi di forte continuità in quanto a Cape Town ho svolto ricerche nelle comunità di rifugiati e immigrati congolesi indagando nuovamente il funzionamento e la diffusione delle società di mutuo soccorso. Le stesse istituzioni, prima indagate nel contesto di una migrazione dal mondo rurale alla città (Kinshasa), sono state indagate nel contesto di una migrazione internazionale. La scelta del Sudafrica quale terreno di ricerca ha differenti motivazioni. Mi piace, in conclusione, riferirne una in particolare: l’Africa ha molte sponde e i flussi migratori hanno molte direzioni; l’antropologia è una forma di spaesamento e ricollocare la questione migratoria sull’altra sponda dell’Africa, quella più meridionale, è dopotutto un modo per ripensare, anche in termini comparativi, a ciò che succede nel Mediterraneo.