Nel volume studiosi di varie discipline storiche (storia contemporanea, paleografia, etnomusicologia, storia della lingua italiana) si confrontano sul tema delle fonti della Grande Guerra indicando percorsi di ricerca innovativi, dal recupero della memoria indiretta con inchieste di storia orale all’esplorazione di corpora e archivi pubblici e privati ancora poco noti. Accanto alle testimonianze del vissuto di guerra l’eccezionalità di quell’evento è testimoniata dallo sviluppo delle scienze sociali favorito dalla mobilità di guerra e dalle strutture concentrazionarie; dobbiamo ad etno-antropologi e a dialettologi alla ricerca della psicologia dei popoli la possibilità di sentire le voci registrate dei soldati che recitano e cantano e di leggere le loro lettere.
PRESENTAZIONE, pp.7 -10
Questa miscellanea nasce da un centenario, quello della Grande Guerra, che il Trentino ha sentito e sente con particolare intensità e con un doloroso bisogno di riguardare ai fatti che hanno visto tra i protagonisti terre e uomini di questa regione sfrondandoli della retorica che li ha per tanto tempo mistificati.
Nell’anno 2014, primo del centenario, in Trentino, Gustavo Corni ha coinvolto molti di noi colleghi in attività convegnistiche e di ricerca su questo tema, con diverse competenze e curiosità scientifiche. È stato alimentato anche negli studenti il desiderio di partecipare attivamente alla celebrazione storica.
Per parte mia ho riunito in un seminario un gruppo di miei laureandi in Storia della lingua italiana che stavano lavorando su documenti del tutto o in parte inediti di soldati e civili. Abbiamo cercato nelle testimonianze della memoria di guerra delle polarizzazioni, sociali e culturali, prima di tutto, ma anche di genere e di esperienza vissuta, che ci permettessero antitesi, più che sintesi. L’opposizione più forte è stata tra chi si è dedicato a testi scritti della prima guerra mondiale e chi, scegliendo un altro modo di studiare la memoria, ha raccolto storia orale della seconda da anziani che all’epoca erano poco più che bambini. Ma avevamo anche le scritture di due donne, entrambe trentine e profughe in un campo di concentramento austriaco, internate, dunque, tanto diverse tra loro: una contadina austriacante con i suoi bambini, preoccupata per loro e per il marito in guerra, e una maestra colta, irredentista, nubile, accompagnata dai genitori, decisa a fare scuola anche nel campo a piccole scolare trentine e testimone di sofferenze e discriminazioni. Degli uomini abbiamo preso in considerazione le scritture di viaggio e di prigionia. Disponevamo dei quaderni di un soldato trentino prigioniero in Italia, che scrive per noia assemblando testi in una sua personale antologia zibaldonesca e gioca con le lingue, da bilingue e dialettofono, con le corsive nazionali e con la crittografia; l’abbiamo opposto ad un altro soldato trentino, combattente in Galizia, poi internato, con un lungo percorso attraverso terre sconosciute, prima in Ucraina, poi in Russia, infine in Siberia, gran raccontatore e osservatore intelligente, autore di una lunga memoria in forma di lettera ad una moglie a cui non riesce più a mandare lettere. Per parte mia ho aggiunto notizia dell’archivio privato di un ufficiale dell’esercito italiano, spostando l’attenzione sul carteggio che intrattiene coi commilitoni a cinquant’anni di distanza dalla guerra che li ha visti affrontare spavaldamente il pericolo a fianco di un D’Annunzio combattente, mistico e seduttivo.
Anche le polarizzazioni di interesse linguistico erano rilevanti. I testimoni dell’ultima guerra sono stati intervistati dalla nipote in dialetto, mentre quelli della prima guerra, scrivendo, pur se dialettofoni, usavano la lingua italiana e se ne servivano con diversa consapevolezza della norma scolastica, chi piena e vigile (la maestra), chi tale da correggersi, chi invece rivelando nella scrittura popolare una scolarizzazione minima. Abbiamo dato importanza ai documenti, descrivendoli nell’aspetto materiale e trascrivendoli diplomaticamente; la loro unicità ne fa delle fonti preziose di storia culturale e di storia linguistica. Ogni scrivente ha mostrato, tanto nelle scelte linguistiche come in quelle testuali, orientamenti ideologici, letture, propensioni che ci hanno permesso di ricostruire altrettante figure emblematiche della varietà sociale.
Dal seminario è nata l’idea di coinvolgere nella discussione sui problemi che avevamo incontrato parlando di vissuti e di memoria di guerra un gruppo di amici rappresentanti di discipline storiche diverse dalla mia: la storia contemporanea (Corni), la storia orale (Casellato), la paleografia (Paolini), l’etnomusicologia (Macchiarella). Li ringrazio tutti per la generosità con cui hanno risposto al mio invito, portando nella miscellanea risultati importanti di ricerche recentissime o addirittura in corso.
Alessandro Casellato ha scelto un’angolatura insolita per parlare della Grande Guerra: integrare la memoria diretta, disponibile solo in fonti scritte, con la memoria indiretta di chi, in famiglia o nei luoghi di guerra, conserva ancora oggi racconti ricevuti da anziani scomparsi. Lo storico di storia orale può tornare in questo modo a un’aneddotica fatta di episodi eroici, ma anche di vicende personali e collettive a cui localmente si dà particolare valore, come lo si dà ai cimeli di guerra e ai percorsi montani di un paesaggio deformato dalle granate e dalle costruzioni belliche, in cui si cercano graffiti, scritte, oggetti lasciati dai soldati.
Casellato offre un panorama storico della raccolta di fonti orali della prima guerra mondiale. Come si vedrà in vari contributi della miscellanea (Casellato, Baggio, soprattutto Macchiarella), questo panorama si è di recente riaperto, a tanti anni di distanza, con il ritrovamento delle incisioni fonografiche delle voci di internati italiani, raccolte metodicamente nei campi di prigionia austriaci e tedeschi da dialettologi e da etnografi professionisti nel quadro di ricerche antropologiche autorizzate e sostenute dai governi.
Al tema della ricerca sperimentale nei campi di prigionia, favorita dalla straordinaria circostanza della compresenza in essi di persone provenienti da centinaia di culture diverse, spesso poco conosciute, è dedicato il mio intervento che riesamina il libro di Leo Spitzer sulle lettere dei prigionieri italiani alla luce di questo fervore etnografico e della concezione della guerra come occasione scientifica.
Ignazio Macchiarella entra nel vivo dei problemi sollevati dalle registrazioni musicali di soldati italiani centro-meridionali ritrovate al Phonogrammarchiv e al Lautarchiv di Berlino e della cui pubblicazione si sta occupando, ‘voci catturate’ su cilindri di cera e su dischi che riemergono a cento anni di distanza con testi musicali dialettali di tradizione orale eseguiti a memoria. E dimostra come non sia solo la tipologia del testo o la variante raccolta ad interessarci, ma anche le modalità dell’esecuzione, che possiamo verificare dalla viva voce di chi canta. Una testimonianza, come si può intuire, assolutamente eccezionale per l’etnomusicologo.
Il contributo della paleografa Adriana Paolini, infine, sonda esplorativamente un genere di fonti scritte ancora poco praticato, informandoci della documentazione lasciata dai sacerdoti trentini in lettere e diari del Fondo profughi Prima guerra del Museo Diocesano di Trento. I sacerdoti accompagnarono i civili trentini allontanati dalle zone del fronte e internati nei campi di prigionia, ne condivisero la condizione di profughi e le sofferenze, e furono per molti di loro il legame più forte con la terra di provenienza, impegnandosi anche nell’opera di garantire i collegamenti tra chi era stato diviso dalla guerra, restituendo, cioè, ai dispersi un sentimento di comunità. Le testimonianze dei sacerdoti permettono di osservare la vita dei campi dall’in- terno, ma aggiungono alle fonti popolari una visione complessiva a loro consentita da una maggior cultura e dal ruolo.
La miscellanea si è aperta, insomma, come si vede, in molte direzioni dimostrando quanto sia produttivo, sempre, conoscere il lavoro degli altri.