Il volume raccoglie circa duecento contributi che, ripercorrendo figure e temi che vanno da Omero ai giorni nostri, discutono le principali idee di lavoro e di ozio rinvenibili nella storia della cultura occidentale. Per l’inedita ampiezza tematica e multidisciplinare articolata in sei sezioni cronologiche, l’opera rappresenta un originale tentativo di analisi e approfondimento, offrendo un contributo di grande rilievo al dibattito contemporaneo nazionale e internazionale sulle trasformazioni del lavoro e del tempo libero.
Giovanni Mari è stato professore di Storia della filosofia presso l’Università di Firenze
Francesco Ammannati è ricercatore presso il Dipartimento di Scienze per l'Economia e l'Impresa dell'Università di Firenze
Stefano Brogi è professore presso il Dipartimento di Scienze Sociali, Politiche e Cognitive dell'Università di Siena
Tiziana Faitini è ricercatrice presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell'Università di Trento
Arianna Fermani è professoressa presso il Dipartimento di Studi Umanistici - Lingue, Mediazione, Storia, Lettere, Filosofia dell'Università di Macerata
Francesco Seghezzi è presidente di Fondazione ADAPT-Association for International and Comparative Studies in Labour and Industrial Relations
Annalisa Tonarelli è professoressa presso il Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell'Università di Firenze
Da: T. Faitini, Introduzione alla parte II. Il lavoro nella tradizione ebraico-cristiana, tra valorizzazione ascetica e civilizzazione (pagg. 137-148)
Un Dio creatore beatamente accovacciato sulla sfera del cosmo, a riposo dopo l’intensa creazione dell’architettura dell’universo, delle sue parti, degli esseri che lo abitano, il rotolo della Sapienza impugnato come un regolo nei giorni precedenti ormai deposto. Poco più in là, Adamo ed Eva vestiti di pelli, cacciati d’imperio dal giardino dell’Eden, l’uno faticosamente ricurvo sulla zappa, l’altra pazientemente china sul fuso. Basterebbe uno sguardo alle decorazioni musive della navata maggiore del duomo di Monreale (c. 1174-1189) – Bibbia illustrata tra le più eloquenti per splendore e magnificenza – per orientarsi nell’ambiguità costitutiva della raffigurazione del lavoro che i testi biblici, e le tradizioni che ad essi più direttamente si richiamano, fanno propria. Un lavoro che, peraltro, torna in molteplici scene lungo le pareti istoriate, in cui si alternano città da fondare, arche da costruire, animali da cacciare o accudire, tavole da imbandire. Nelle iconografie di epoca successiva sarà soprattutto la cacciata del primo uomo e della prima donna dall’ozio sovrabbondante del paradiso terrestre, talora accompagnata – come può vedersi, del resto, se solo ci si sposta all’esterno del duomo per ammirare le scene edeniche scolpite sulle formelle del portale bronzeo – non solo dalla minaccia della spada del cherubino guardiano ma dalla consegna degli utensili di lavoro, a dominare l’immaginario del racconto della Genesi, e raccogliere in sé il senso di un lavoro inteso come penosa condanna che segna la condizione umana in tutta la sua alterità rispetto a quella divina. Nei cicli musivi siciliani del XII secolo, però, l’opera e il riposo sono anche di Dio, ed emerge distintamente quella ‘polifonia’ che la storiografia più avvertita in materia di rappresentazione dell’attività lavorativa nelle fonti antiche e premoderne ha segnalato come carattere di cui tenere conto per non guardare ad esperienze e rappresentazioni storiche complesse attraverso il filtro delle fonti più alte e maggiormente circolate, che sembrerebbero disegnare un quadro univoco e del tutto ‘monodico’ di società aristocratiche in cui lo sforzo produttivo sarebbe stato disprezzato e associato all’abbruttimento morale e materiale degli esseri umani (Lis e Soly 2012).
Una simile avvertenza di metodo si applica, forse a maggior ragione, ai testi che la tradizione ha raccolto nel canone biblico. In effetti, la stratificazione cronologica e contestuale di composizione di tali testi, nonché la loro travagliata vicissitudine di trasmissione, rendono un’indebita semplificazione qualsiasi riferimento ad una ‘concezione biblica’ che rischia sempre di obliterare da un lato la pluralità dei contesti, degli autori, dei punti di vista innervati da un rapporto profondo con i codici culturali e i pantheon politeistici del Vicino Oriente antico, e dall’altro, specularmente, il filtro opaco di secoli di esegesi e recezione (Prato 2013, 63-6).
Pur con queste inevitabili avvertenze e nella consapevolezza dell’impossibilità tanto di individuare una tradizione, ebraica e cristiana, quanto di separare una tradizione ebraica e cristiana dalla più ampia tradizione europea che con essa per buona parte della sua storia ha sostanzialmente coinciso, questa sezione raccoglie alcuni contributi che si propongono di gettare luce sulle riflessioni e sulle pratiche di lavoro nutrite più direttamente di riferimenti biblici e teologici, e maturate in contesto espressamente esegetico e teologico. Dopo aver ulteriormente scavato nell’ambivalenza della rappresentazione del lavoro dei testi biblici, le pagine che seguono si propongono di identificare sommariamente alcuni snodi tematici e problematici all’interno di questo contesto di riflessioni e pratiche, il cui tratto specifico è rinvenibile anzitutto, mi pare, nella loro consistenza, tutt’altro che marginale o residua, indice di un disciplinamento e una valorizzazione morale delle attività mondane di vasta portata: un tratto, questo, che, pur volendo qui dichiaratamente rifuggire dall’identificazione di una qualsivoglia relazione causale, certo contribuisce all’intelligibilità storica del modello di organizzazione sociale ed economica consolidatosi nell’Europa moderna, che ha nel lavoro socialmente organizzato una chiave di volta.
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Queste note introduttive rilanciano la complessità, e l’inevitabile polifonia, della tradizione originata da un testo storicamente complesso quale la Bibbia, che si è declinata a seconda dei momenti e dei contesti, in ragione del tessuto di relazioni di potere con cui ha interagito e che ha partecipato a consolidare o riscrivere, dentro e fuori le chiese, in quell’incessante dialettica che sempre lega elaborazione dottrinale e pratica sociale. Se ciò attesta l’arbitrarietà della separazione delle riflessioni di matrice ebraica e cristiana rispetto al contesto culturale, economico e sociale di appartenenza – e la necessità quindi di guardare ad esso e, più prosasticamente, di leggere il contenuto di questa sezione in parallelo alle altre di questo volume –, non cancella però l’utilità ermeneutica offerta da questa prospettiva di lunga durata.
In seno alla pluralità di comunità di credenti che, in ambito europeo, hanno fatto della Bibbia il proprio testo sacro, si è consolidata un’ampia e precipua tematizzazione della ‘perfetta condotta’ in ragione, da un lato, di un bilanciamento tra tempo di lavoro e tempo di festa inteso a riportare la prospettiva escatologica nell’orizzonte temporale della storia, e, dall’altro, di una valorizzazione ascetica dell’operosità in contrapposizione all’otium inattivo, intesa al compimento, da parte di ciascuno, del proprio ‘dovere di stato’. A questa tematizzazione – come esemplarmente ricordato da Weber – le pratiche religiose hanno garantito una vastissima presa sul comportamento socialmente diffuso, informando le motivazioni oggettive e soggettive della condotta non solo di élites ma di masse di credenti e così plasmando «il “carattere popolare” in maniera decisiva e determinante» (Weber 2008, 215).
Della complessità che si è evocata in apertura, la storia della recezione sembra operare una certa semplificazione, privilegiando la stigmatizzazione morale e sociale dell’oziosità e sostenendo la necessità di contribuire al bene comune – e all’opera creatrice – attraverso la propria operosità. L’accentuazione della visione per cui la narrazione biblica contrapporrebbe a una condizione originaria ed ideale l’antitesi di una condizione corrotta, punita con lavoro e sofferenza, finisce con l’attribuire al lavoro uno scopo redentivo e, dunque, a sostenere un’esortazione quando non un comando generalizzato al lavoro, un tratto che è facilmente riscontrabile nella storia degli effetti più recente Si conferma così, nonostante l’impossibilità di ridurre a sintesi una evidente pluralità di orientamenti e sfumature, l’indiscutibile rilevanza della tradizione cui è dedicata questa sezione per contribuire a comprendere le condizioni di possibilità di un modello di organizzazione sociale, politica ed economica che ha fatto dell’operosità il criterio fondante dell’inclusione e dell’esclusione.
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