Hanno sfidato il deserto e il mare in cerca di un nuovo inizio. All'orizzonte c'è la speranza di una vita normale, libera dal peso di essere nati nel posto sbagliato, al momento sbagliato.
Cosa succede in un luogo in cui, come dicono tutti, non accade nulla? Le vite ferme abitano un ex motel di una periferia urbana, che parla per migliaia di altri luoghi di accoglienza e di confinamento. Nelle sue stanze si svolgono storie che dovrebbero restare invisibili, silenziose, ai margini della città. Nei suoi spazi di quotidianità si dipana l'intreccio di ricordi, abitudini, gusti, paure, speranze e aspirazioni di quegli abitanti precari. Sono quasi tutti ragazzi di vent'anni, neri, africani, richiedenti asilo, sopravvissuti a viaggi detti della disperazione, ancora in attesa di sapere se avranno il permesso di vivere nel paese in cui si trovano da anni. Nella struttura si dorme, si cucina, si gioca, si prega, si litiga, si sta come ospiti che devono meritarsi i diritti di cui godono. Basato su un paziente lavoro etnografico, il libro racconta la vita d'ogni giorno dei migranti con le loro stesse parole, fatte di desideri e di frustrazioni, di sogni e di incubi, di presenza e di assenze.
Paolo Boccagni è professore presso il Dipartimento Sociologia e Ricerca Sociale dell’Università di Trento
Dall'introduzione (pagg. 7-10)
Sei un richiedente asilo, o così ti hanno detto. C’è la fuga, il viaggio, e tutto quello che vorresti esserti lasciato alle spalle, dietro di te. C’è un futuro su cui spesso sai poco, e con il tempo impari ad aspettarti ancora meno, davanti a te. In mezzo, non c’è il vuoto. C’è la vita di tutti i giorni, e il luogo in cui la stai passando. Che di solito vuol dire, se sei arrivato in un paese abbastanza sicuro, una forma almeno provvisoria di rifugio. Quando va bene, un centro di accoglienza. Un indirizzo. Qui e ora, una stanza.
La vita del richiedente asilo, o del rifugiato, non è soltanto uscita, transito, mobilità forzata e protratta. È anche, e per lunghi anni, stasi, immobilità, attesa. Anni che possono trascorrere dentro spazi come il centro d’accoglienza che fa da palcoscenico, casuale e necessario, per le vite abitate e narrate in questo libro. Molto si è scritto sui campi per i rifugiati, tanto più dopo la crisi del 2015 nei paesi europei. È lì che una parte di loro abita o per lo meno transita, dentro traiettorie di mobilità frammentate e reversibili, spinte dall’impossibilità del ritorno più che dalla possibilità dell’arrivo. Eppure poca di questa letteratura o della produzione artistica e letteraria sul tema ha guardato sistematicamente l’abitare quotidiano dal di dentro. Non solo quello delle emergenze abitative intorno a cui proliferano gli sguardi curiosi, partecipi, a volte anche utili di attivisti, ricercatori, giornalisti. Non solo l’abitare del campo come struttura che appare, e spesso oggettivamente è, opprimente, totalizzante, semicarceraria: un luogo in cui la povertà dell’accoglienza moltiplica la sofferenza di chi ci deve stare e alimenta le narrazioni critiche e astratte del rifugiato come ultimo simbolo, e vittima, delle contraddizioni del neoliberismo e dell’umanitarismo.
Senza negare il cumulo perverso di povertà, improvvisazione e speculazione che si può sedimentare nell’accoglienza, esistono statuti abitativi diversi – non necessariamente migliori ma più sfumati e ambivalenti, per questo più interessanti da esplorare dall’interno. Non si tratta per forza di buone prassi o incubatori di inclusione e innovazione, come nelle contronarrazioni di segno più propositivo o celebrativo. A volte sono semplicemente luoghi in cui si è arrivati per caso, si ha diritto a stare, non si intravedono opzioni alternative o di pari convenienza e ci si resta fino a nuovo ordine. Luoghi in cui si abita da ospiti con un grado variabile, ma spesso inferiore al dichiarato, di accompagnamento, presidio, controllo. Luoghi a volte isolati in cui nulla succede, o così parrebbe da fuori, se non aspettare4. Far trascorrere il tempo. Luoghi che ricordano parcheggi in malo stato più che prigioni. Eppure, luoghi in cui sotto la pressione delle regole, del controllo e della passività la vita resiste, fluisce, richiede più riconoscimento e comprensione.
Uno di questi luoghi è il centro che racchiude le narrazioni di questo libro. Dentro l’edificio ci sono stanze. Dentro le stanze frammenti quotidiani di domesticità, pensieri, attese, sogni. Mondi di vita con poche risorse, incerti rapporti con il mondo esterno, eppure un grado di protezione, invisibilità e privatezza irrealizzabile altrove. Bolle minute e maltenute, dentro un’altra bolla appena più grande che si chiama centro, con la sua vita parallela a quella del mondo esterno. Eppure luoghi normali a modo loro, potenzialmente conviviali, in ogni caso un po’ più tuoi di tutti gli altri. Spazi di solitudine ricercata, o più spesso subita, che hanno qualche cosa di domestico. Perché finché stai lì, per scelta o impossibilità di trovare di meglio, sei anche un incluso. Qualunque cosa tu faccia o, più spesso, non faccia.
Stare lì, da ospite degli ospiti, non vuol dire intrudersi, spogliare, mettere in mostra. Vuol dire invece vedere, sentire, rendere giustizia e comprendere di più che rimanendo fuori, nella «società ricevente». Vite ferme raggruppa quindici stanze di un centro per richiedenti asilo, con le storie di chi le ha abitate e le traiettorie quotidiane che le connettono tra loro e con il mondo esterno. Ogni stanza è un mondo a sé e può essere letta anche da sola, ma fa parte di un unico spazio dedicato, apparentemente immobile e parallelo, al margine della città. Viste dalla soglia e per le funzioni che svolgono, si tratta di stanze come tutte le altre. Il punto, però, è che non sono solo stanze. E dopo un po’ che ci si sta, non sono come tutte le altre. Diventano invece frammenti di domesticità significativa, anche mentre raccontano soltanto pochi anni e pochi metri quadri di vita abitata. Dentro quei frammenti che contengono persone, senza essere veramente casa per nessuno, si dispiegano microscopiche storie di casa – storie di vite vissute e non ancora narrate, direbbe John Berger – che non trovano spazio nelle grandi narrazioni collettive dell’accoglienza: solidarietà, controllo, assistenza, resistenza, attesa, e così via. C’è molto più di questo nelle stanze e nelle storie delle persone che ho conosciuto e che mi hanno ospitato al centro. Ricostruirne alcune è dare qualche appiglio in più per la loro voce, e qualche strumento in più per l’ascolto e la comprensione pubblica dell’asilo.
Vite ferme è un libro transitorio e circolare insieme, come le traiettorie delle persone che lo abitano – il centro, e quindi il libro. Non c’è punto d’arrivo, ma solo il passaggio dentro uno spazio-tempo che sembra ruotare intorno a sé stesso. Del prima non si vuole dire troppo, del dopo non si sa molto, ma si può ragionevolmente sperare sia migliore di quello che ci si è lasciati alle spalle. Intanto, il passaggio conta. Anche quando sembra un circolo chiuso che si riproduce uniforme, giorno dopo giorno, non è fatto di vuoto o di semplice attesa. È carico di emozioni, pensieri e relazioni, sotto l’apparenza delle routine dell’immobilità. È spazio-tempo importante, critico, ambiguo. A volte perfino divertente.
Vite ferme non è, in senso stretto, un libro sulle storie di vita dei rifugiati. Tratta invece della domesticità necessaria nell’attesa – gli anni trascorsi nell’ambiente relativamente protetto e potenzialmente soffocante dell’accoglienza, consumati standoci dentro con tutti e cinque i sensi, accumulando spezzoni di ospitalità quotidiana. Al pari degli orizzonti quotidiani dei suoi protagonisti, il libro non contempla l’equilibrio tra generi. La narrazione è quasi esclusivamente maschile, perché il luogo è popolato quasi soltanto da uomini. Non una situazione desiderabile per uno spazio di vita collettiva. Un dato di fatto ordinario, irrilevante e opprimente in un centro per richiedenti asilo. Quasi tutti i protagonisti provengono dall’Africa occidentale, anglofona o francofona, e hanno tra i 20 e i 25 anni, tra il 2018 e il 2022. Anni di transizione tra il viaggio e tutto quello che verrà dopo, per loro e per ogni altra persona migrante; tra governi di colori e composizioni diverse, di cui arrivano i riverberi fino a dentro le camere del centro; tra emergenze migratorie vecchie e nuove, ma invariabilmente fittizie e pretestuose; tra un mondo ritenuto normale, uno in emergenza da pandemia e uno, forse, di nuova normalità.
Tutti gli abitanti del centro sono anche dei sopravvissuti – a un destino che li ha fatti nascere nel posto sbagliato, a un deserto attraversato, a un mare solcato con mezzi di fortuna fino al paese che li ha salvati, li sta in qualche modo ospitando, e dopo chissà. Tutte le persone che passano dal centro cercano un nuovo inizio, senza sapere né quando né come né dove. Per scelta non indico il paese di provenienza di ciascuno. Non è una scelta indolore, perché sacrifica un pezzo importante del loro mondo – quello che un richiedente asilo vorrebbe rendere il più privato, nascosto e lontano possibile, salvo doversi abituare a narrarlo in forme dettagliate, credibili e vittimizzanti, fuori dal centro, per avere diritto a restare. Aprire esplicitamente alle storie delle loro origini, nazioni, etnie e comunità dischiuderebbe un campo molto più ampio e controllabile di quello su cui si appoggia il libro – un luogo preciso, tangibile, spoglio e transitorio, eppure al cuore di anni di vita. Abbinare le storie ai paesi renderebbe i protagonisti più identificabili e contribuirebbe a etnicizzarli: un invito a leggere i comportamenti, le prospettive di integrazione, perfino le chance di ricevere un permesso di protezione internazionale in base alla cittadinanza, a sua volta riduttiva rispetto all’appartenenza etnica o religiosa. Per fortuna non c’è bisogno di tutto questo. Anni vissuti dentro le stesse stanze, insieme e da soli, bastano a ospitare tante storie nuove, complesse e importanti, per chi ha la pazienza di raccoglierle e ascoltarle. Dopo, per chi le ha vissute, quasi tutto proseguirà come prima. Per chi le ha ascoltate e condivise nulla sarà più come prima. Per chi le legge, si vedrà.
Vite ferme. Storie di migranti in attesa di Paolo Boccagni, Il Mulino, 2024, pp.272