Ada Negri (Lodi 1870 – Milano 1945), poetessa e scrittrice italiana, è stata la prima e unica donna a essere ammessa all’Accademia d’Italia. Di umili origini, maestra elementare, frequentò gli ambienti milanesi del Partito socialista a cavallo tra Ottocento e Novecento. Dal fallimentare matrimonio (1896) con Giovanni Garlanda, industriale tessile di Biella, nacquero Bianca, ispiratrice di molte poesie, e Vittoria, che morì a un mese di vita. La sua fama crebbe e si consolidò presso pubblico e critica, portandola a sfiorare il Premio Nobel: tra le sue raccolte più celebri ricordiamo Fatalità (1892), Maternità (1904), Dal profondo (1910), Esilio (1914), e il romanzo autobiografico Stella mattutina (1921).
Carla Gubert è professoressa presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell'Università di Trento
Dall'Introduzione. Carla Gubert, L'aquila e il serpente (pagg. 5-11)
Ada Negri è stata una scrittrice prolifica come pochi tra Otto e Novecento, riportata all’attenzione del pubblico in occasione dei centocinquant’anni dalla nascita [...].
Dieci raccolte, centinaia di poesie tra cui scegliere, migliaia di versi che tradiscono l’urgenza del dire, di non farsi intimorire e ridurre al silenzio. Ci sono poi i racconti, i ritratti (quasi tutti a soggetto femminile), le orazioni funebri in tempo di guerra come quella per Roberto, il figlio dell’amica Margherita Sarfatti. Ovvero quella parte di scrittura in prosa che le sarà tanto congeniale quanto un po’ estranea, come un dono non del tutto gradito, desiderando ogni volta il ritorno alla poesia, «pieno come avevo il cervello di armoniose cadenze d’endecasillabi» (La cacciatora, in Sorelle, 1928). Una fedeltà alla propria vocazione poetica che non viene mai meno, nemmeno nei momenti più bui della sua esistenza.
L’esordio con Fatalità (1892), poi consolidato tre anni dopo da Tempeste, presenta al pubblico una giovane estranea agli ambienti mondani e intellettuali del tempo, vivaio della maggior parte delle numerosissime scrittrici presenti sulla carta stampata (Aleramo, Vivanti, Aganoor Pompilj, Serao, Guglielminetti), figlie privilegiate di una classe benestante. Ada Negri no, la sua cultura è scolastica, i suoi modi e il suo aspetto sono quelli di una popolana. Lo scalpore che inevitabilmente suscita questa singolarità la pone al centro di un’attenzione quasi morbosa, facendone presto la voce poetica più nota e amata dal pubblico, coniando per lei definizioni nuove e accattivanti: “la vergine rossa”, “la maestrina di Motta Visconti”, “la poetessa degli umili”. Del resto la sua voce è selvaggia e limpida, i temi chiari: «sorse improvvisa nel mio cervello l’idea di una poesia diretta e tagliente, come lama di coltello, che dicesse, con l’evidenza del sangue che sgorga a fiotto da una piaga, i dolori e le miserie della povera gente [...] e scrissi a rompicollo, così come voleva la mia violenta natura ancora quasi adolescente» (Memorie e versi, 1905).
Se Carducci apprezza subito in lei «la poetessa sana ed energica», aggiungendo un «benvengano le donne» (alle quali non era affatto indifferente tenendo a battesimo altre autrici), la critica si divide in detrattori (pochi) ed estimatori (tanti). Come sempre accade, ieri come oggi, le critiche feriscono di più e il balsamo degli elogi non sempre basta a curare le piaghe.
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E se nella famosa poesia della prima raccolta, dal titolo Senza nome, Negri si presentava in tutta la sua prosaicità come rozza figlia della stamberga e poteva beffarsi del giudizio altrui («Chi l’ascolta non curo; e se codardo/livor mi sferza o punge,/provocando il destin passo e non guardo,/e il vene- fico stral non mi raggiunge»), il veleno del dubbio si insinua con il passare degli anni, fino a trasformarsi in un pensiero torturante, come scrive all’amica Laura Orvieto nel giugno del 1914: «Io porterò fino alla morte la dissonanza fra la smisurata popolarità che circonda la mia poesia e il suo reale e riconosciuto valore artistico: la porterò come una ferita che non si rimargina».
Non sapendo come inquadrarla o come creare quelle catene di parentele che toccano in sorte a ogni esordiente (tanto più se donna), qualcuno le fece il regalo più bello e la definì “indipendente”. Di lirismo anarchico parlò Giuseppe Antonio Borgese. Ada Negri era fiera di una diversità che la avvicinava agli umili, portata come una bandiera: «Lo so. – Per te non c’era e non c’è posto/nel mondo disegnato a quadratini/ ben distinti, con cifre di classifica/ben chiare» (Fratello).
Ogni raccolta esaurisce in sé una tappa della sua vita, sublimandola. Con Maternità (1904), cambiate le condizioni di vita (il matrimonio, la nascita della primogenita Bianca e la perdita in culla della seconda figlia, la malattia), la carica rivoluzionaria delle prime raccolte, nate dal clima culturale di fine Ottocento e dalla vicinanza al Partito Socialista con cui condivide gli ideali antiborghesi e una visione eroica del proletariato, viene in parte abbandonata per chiudersi in una maggiore intimità. Allo stesso tempo Negri comincia a volgere lo sguardo al passato, all’epoca felice della giovinezza, ricordando con rimpianto «la vergine ventenne/con la fronte segnata dal destino» sfiorare «diritta il ripido cammino» (Ritorno a Motta Visconti).
La paura per la guerra imminente, la lontananza da casa e dalle sorelle d’anima, le troviamo in Esilio (1914) e nelle lettere che scrive.
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L’amore, ancora ingenuo all’altezza di Tempeste quando si deve rassegnare alla partenza di Ettore Patrizi, brucerà nel Libro di Mara (1919) e insieme a una profonda crisi spirituale porterà nuova linfa alla sua scrittura, le allungherà il verso assecondando lo spirito del tempo. La «indomita fiamma» che in lei albergava sembra consumarsi ora in una passione ardente, spirituale ed erotica: «Di giorno, di notte, presente, assoluto, o amore invisibile, o amore universo,/tu l’assorbi come allora che il tuo amplesso rapinava tutto di lei,/dal pollice del piede contratto alla radice delle schiumanti chiome» (Trasumanazione).
La luminosità della natura di Capri descritta ne I canti dell’isola (1924) lenirà il suo dolore ma non smorzerà la sua passione. Poi verrà il conforto della religione e con essa una rinnovata ansia di giustizia.
Non possono essere tutte mirabili queste poesie, considerata la quantità che porta inevitabilmente alla ripetizione dei temi e al sospetto di una eccessiva facilità di un canto a gola spiegata, ridondante e a tratti melodrammatico, con qualche forzatura metrica (le prime raccolte sono tutte in versi legati, distici o terzine). Il poemetto sarà sempre la forma privilegiata perché quella più elastica e utile alla narrazione di storie umane. La selezione che qui si offre accosta così liriche note a qualche scelta meno convenzionale, con l’intento di dividere il grano dal loglio e restituire un ritratto artistico e umano della scrittrice lodigiana che ne illumini attraverso l’opera alcune direttrici.
Oltre ai temi classici della maternità, dell’amore e della morte (più invocata che temuta fin dagli esordi, quasi un’altra sorella), si mantengono costanti due punti fermi e opposti del suo temperamento: da un lato una forma di fiero e perfino sfacciato orgoglio («la mia superbia e la potenza mia/io voglio dirti» scrive in Ego sum) che la porta a identificarsi nell’aquila reale, «regina degli atomi erranti», «centro del cosmo» (Il minuto) e a scrivere ancora, nell’ultima raccolta «Ogni dolor più salda/ti rese: ad ogni traccia del passaggio/dei giorni, una tua linfa occulta e verde/opponesti a riparo.» (Mia giovinezza); dall’altro la solitudine evocata in innumerevoli poesie: «bada, cadrai:/sei sola, sola ed hai le membra rotte,/e niuno ha fede in te: non vincerai,/non vedi che cammini ne la notte?...» (Sconforto).
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Ha ancora senso interrogarsi sul perché Ada Negri è stata dimenticata? Perché dopo essere stata ritenuta la più importante scrittrice nazionale tra Otto e Novecento, tradotta e apprezzata all’estero, presente su ogni antologia scolastica almeno fino agli anni Settanta, il canone se l’è inghiottita? In fin dei conti non è quello che è successo a ogni scrittrice italiana, salvo selezionatissimi e controllati casi?
Vorrei invece provare a immaginare di raccontare oggi a una classe di giovani donne e uomini la storia di una donna-zingara libera come un’aquila, una guerriera con i capelli di un nero bluastro come ali di corvo (lo raccontò l’amico Angelini), che sfida un mondo di potenti da sola e pagandone il prezzo vince. Che sceglie la poesia autobiografica e civile per «sferzare sulla faccia» un mondo grasso di oche e serpenti. Che si separa dal marito quando non esiste ancora il divorzio perché non è felice, che ama intensamente un uomo, che vede senza retorica nella figlia Bianca un’altra da sé, una creatura giustamente libera. E che non permette a nessuno di ridurla al silenzio, riempiendo la sua vita di parole: «[...] Ecco: ritrovo/me stessa: col mio corpo e col mio nome /e il senso della mia carne profonda [...]/ Io, sempre. Io, sola.» (Alba)
Allora, forse, invece di interrogarci sul perché sia stata dimenticata, torniamo semplicemente a leggerla e se vogliamo giudicarla, che la nostra mente sia, per parafrasare il poeta Mario Luzi, più perfetta.
Per gentile concessione della casa editrice Rizzoli