Fra fine ottobre e i primi di novembre del 1917 la popolazione del Friuli e del Veneto a Est del Piave fu travolta da due inarrestabili ondate: la prima delle colonne di soldati e mezzi militari italiani in ritirata dopo la rottura del fronte a Caporetto, e pochi giorni dopo la seconda degli austro-ungarici e germanici vincitori.
Per quasi un anno nel territorio invaso fu attuato uno spietato regime d’occupazione. Tutto fu conteggiato, stimato, requisito, e consumato in loco dagli occupanti, lasciando alla popolazione occupata solo le briciole. Fra occupanti e occupati si instaurarono complessi rapporti, fatti anche di reciproca compassione. Ma non mancarono atteggiamenti di reciproco odio.
Il tema è stato largamente trascurato dalla storiografia, anche a livello locale. La monografia di Gustavo Corni, specialista di storia della Germania nell’Otto-Novecento, si propone come il primo ampio affresco basato su fonti d’archivio austro-germaniche e italiane e su una ricca produzione diaristica.
Gustavo Corni è uno storico italiano specializzato in storia contempranea, è stato professore presso l'Università di Trento.
Dall’introduzione (pp. 7-8)
Fra fine ottobre e i primi di novembre del 1917 la popolazione del Friuli e del Veneto a Est del Piave fu travolta da due successive inarrestabili ondate: la prima delle colonne di soldati e mezzi militari italiani in ritirata dopo la rottura del fronte nella zona di Caporetto, e pochi giorni dopo la seconda dei reparti austro-ungarici e germanici vincitori. Di una popolazione stimata attorno al milione di persone circa 230.000 riuscirono a mettersi in salvo perché meglio informate, o più fortunate; gli altri in larga maggioranza abitanti delle campagne restarono aggrappati alle loro case, ai loro poderi.
Per un anno quasi esatto nel territorio invaso fu attuato un duro regime d’occupazione, dapprima in condominio fra i due Imperi centrali, poi da gennaio dalla sola monarchia asburgica. Il regime d’occupazione fu spietato. La situazione non si stabilizzò mai; alla prima fase di saccheggi, violenze e soprusi, durata un paio di mesi, fece seguito quasi senza soluzione di continuità un pesante sfruttamento sotto forma di requisizioni delle risorse disponibili sul territorio. L’immensa armata d’occupazione era costretta dalle vieppiù difficili condizioni della madrepatria, scossa da fame, rivolte sociali e contrasti nazionali, a esercitare un’incessante pressione sul territorio occupato. Furono smantellate e asportate le poche fabbriche esistenti e sequestrati senza risarcimento tutti i beni di un qualche valore per il mantenimento dell’esercito occupante, fino al fogliame, alle pentole di rame, alle campane delle chiese. Tutto fu, conteggiato, stimato, requisito, e infine consumato in loco dagli occupanti o inviato verso la madrepatria, lasciando solo le briciole alla popolazione occupata. La situazione si aggravò con l’autunno del 1918 e al momento della ritirata finale tornarono a imperversare seppure per pochi giorni i saccheggi cui presero parte anche dei civili.
La pressione sulla popolazione, in gran parte composta da donne, anziani e bambini, ebbe conseguenze drammatiche, culminate in una mortalità quasi tripla rispetto agli anni precedenti. Le punte più elevate si concentrano nella zona montana e nell’area costiera, che tornò a essere una malsana palude. La fame e la ricerca sfrenata di cibo erano al centro di tutto, per gli occupanti come per gli occupati.
Il paradosso è – a mio parere – che il poderoso esercito, vincitore a Caporetto, era in realtà già sconfitto in partenza e per tutto l’anno di occupazione tentò solo di procrastinare l’inevitabile esito. Ha scritto in modo secco Rauchensteiner, il massimo studioso austriaco della guerra, che “Caporetto è in primo luogo una vittoria di Pirro”. Da questo punto di vista l’occupazione dell’Italia nord-orientale è eccezionale: l’occupante non era una potenza nel suo fulgore, ma si trovava in una condizione di profonda crisi. I tentativi di dare una parvenza di razionalità all’occupazione, ad esempio organizzando la stagione agricola del 1918, si rivelarono vani.
Da parte della popolazione civile, abbandonata da una larga porzione della sua classe dirigente, ci furono tentativi spesso eroici di organizzare la penuria. Una nuova classe di amministratori, in buona misura sacerdoti, si mise all’opera nelle condizioni più difficili cercando un terreno di dialogo con gli occupanti. Ma anche fra la gente comune si strinsero rapporti di mutuo soccorso, forse anche di simpatia verso i militari austro-ungarici, che agli occhi dei civili apparivano altrettanto affamati. Né, d’altra parte, mancarono gli speculatori che cercavano di approfittare della situazione. A uno studio fondato sulle abbondanti fonti disponibili il regime d’occupazione si mostra intriso di compromessi, di sfumature, fra gli estremi della nuda violenza e del mutuo soccorso, degli arbitrî incontrollabili e della debordante normativa a cui si aggrappava la burocrazia dell’occupante.
Ho iniziato a interessarmi di questo tema attorno alla metà degli anni ’80. Un collega veneziano, Danilo Gasparini, mi coinvolse in un progetto per scrivere a più mani la storia di due villaggi della Marca: Vidor e Colbertaldo. Si era allora in pieno boom della micro-storia e il progetto si iscriveva in questo trend. Non mi ero mai occupato dell’invasione austro-germanica nel 1917-1918; ma Danilo mi coinvolse perché sapeva che io conoscevo bene il tedesco. Sarei così stato in grado di decifrare la scrittura corsiva nelle carte del tempo. Senza consultare i documenti custoditi nel gigantesco Kriegsarchiv di Vienna, la ricerca non poteva neppure iniziare. Accettai e iniziai a immergermi nel tema scoprendo quanto fosse interessante e allo stesso tempo sottovalutato dalla storiografia. In fondo, sul territorio invaso per un anno quasi esatto avevano convissuto circa un milione di militari (a seconda dei periodi) e quasi altrettanti civili. In quella prima fase della ricerca ebbi anche la fortuna di incontrare alcuni testimoni, che allora bambini avevano vivaci ricordi di quegli eventi.
Che da parte austriaca ci fosse stato disinteresse per il tema era ovvio: la guerra era stata persa proprio sul Piave e aveva provocato la fine del glorioso impero asburgico. Per la Germania si trattava di una vicenda marginale se confrontata con i due fronti principali: quello occidentale e quello orientale.Più difficile era per me capire il disinteresse italiano; in fondo, avrei pensato che anche l’anno dell’invasione, ampiamente trattato dalla propaganda coeva, potesse rientrare nell’epopea della difesa della patria sul Piave e della grande vittoria finale, con un pezzo del popolo italiano che soffriva e resisteva sotto il duro tallone nemico. Quando iniziai la ricerca non esistevano studi approfonditi e anche il numero e la qualità di studi localizzati e di fonti edite – perlopiù diari - erano ridotti. Giunsi infine alla conclusione che un tema del genere, in cui predominava la rassegnazione di un popolo formato da donne, anziani e bambini fosse poco adatto a esaltare il virile slancio collettivo celebrato dal regime fascista.
Scrissi perciò nei miei primi lavori di un’eclatante “dimenticanza storiografica”.
Per gentile concessione dell'editore Gaspari




