La questione del dissesto idrogeologico occupa quotidianamente le cronache dei mezzi d’informazione della Penisola. Malgrado ciò, il tema non ha finora ricevuto sufficiente attenzione in sede storiografica. Questo libro, partendo dalle considerazioni pronunciate più di sessant’anni fa da Emilio Sereni, getta alcuni spunti di riflessione sulle cause storiche e sulle possibili riforme per arginare il fenomeno.
Federico Gestri è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell'Università di Trento
Dalla Prefazione. Il valore di una storia del rischio idrogeologico (pagg. 6-9)
Di questo dissesto idrogeologico del territorio italiano, ben presente nella percezione degli osservatori sin dal XVIII secolo, delle soluzioni proposte e dei parziali fallimenti, Gestri ci restituisce una storia lunga, solo in parte scandita dalla periodizzazione politico-istituzionale classica, con un lavoro che si pone a cavallo tra storia e geografia storica e riferimenti apicali di entrambi i settori come Piero Bevilacqua, Carlo Poni, Leonardi Rombai, Eugenio Turri, Bruno Vecchio. Il risultato è un lavoro di approccio ibrido, territorialista, proprio seguendo la scia dettata dal suo ispiratore, Emilio Sereni, difficilmente incasellabile nelle strette maglie degli attuali settori disciplinari, motivato dalla stessa complessità dell’oggetto di studio.
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Per questo tema complesso, da affrontare in modo olistico, l’autore identifica due criticità analitiche, recuperate dal Sereni: «abbandono» e «sfruttamento». Fenomeni apparentemente opposti, in realtà due facce della stessa medaglia, ovvero dei processi spaziali che hanno interessato il Paese per tutto il Novecento, e che ne hanno amplificato i vulnera territoriali. La dialettica tra sfruttamento e abbandono non è mera disputa accademica, ma ricade in toto sulle scelte gestionali, investendo direttamente i dibattiti su come concretamente agire e sulle soluzioni da adottare, come l’annoso (o per meglio dire, come dimostra l’autore, secolare) dibattito su bosco o meno bosco quale panacea del dissesto.
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Dalla lettura di Gestri emerge con chiarezza la proposta di un passo ulteriore, l’invito a considerare lo stesso dissesto idrogeologico come un prodotto sociale; risultato non solo di una fragilità ontologica del territorio della Penisola, ma anche di processi di crescita disordinata, ennesimo danno prodotto dal capitalismo e da politiche di governance territoriali in parte fallite. Non comprensibile senza considerare le strutture che lo hanno amplificato, non risolvibile senza affrontare i processi antropici che ne stanno alla base. La meta ultima di questo ragionamento, la possibilità di abbandonare la definizione di “calamità naturale” per privilegiare quella di “calamità socio-ambientale”, è in parte rivoluzionaria, ma soprattutto richiama a una grande assunzione di responsabilità da parte di studiosi, tecnici, istituzioni.
Dalle Considerazioni finali (pagg. 119-122)
Ancora oggi il dissesto idrogeologico può essere associato allo sfruttamento del territorio non più con i disboscamenti e i dissodamenti bensì con la cementificazione, le monoculture, l’alterazione del regime idraulico. Se le conseguenze dello sfruttamento sono documentate fin dai tempi antichi, il fenomeno dell’abbandono si è manifestato con tutto il suo slancio soltanto dalla seconda metà del Novecento. Durante il cosiddetto boom economico, a fronte di un aumento vertiginoso della popolazione urbana e valliva, si è verificato il grande esodo dalle colline e dalle montagne. Con l’abbandono dei terrazzamenti, dei ciglionamenti, delle fosse e delle scoline, l’incuria ha preso il sopravvento determinando l’incremento dell’erosione superficiale e l’aggravamento del dissesto idrogeologico.
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A partire dalla fine del Settecento e, con maggior vigore, tra Otto e Novecento si sono moltiplicate le iniziative per contenere il dissesto. Gli strumenti dell’azione risanatoria hanno riguardato in un primo momento il vincolo idrogeologico e i rimboschimenti. A partire dagli anni Settanta del secolo scorso è stato introdotto il concetto di pianificazione che ha condotto negli anni Novanta all’adozione di Piani di Assetto Idrogeologico. Tuttavia, ad oggi, nessuno strumento è stato in grado di mitigare con efficacia l’azione distruttiva di frane e alluvioni. Nel corso dei decenni le istituzioni hanno affrontato la questione del dissesto attraverso interventi d’urgenza piuttosto che di prevenzione, ed è mancata completamente una continuità d’azione politica su questa materia. Non di rado, infine, governi, regioni ed enti locali hanno manifestato conflitti d’attribuzione sulla gestione del territorio e delle sue risorse.
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Le considerazioni di Emilio Sereni, oltre a fornire una chiave di lettura per decifrare il passato e il presente del dissesto idrogeologico, suggeriscono alcune possibili soluzioni al problema. Nel corso dei secoli l’uomo ha trasformato il paesaggio naturale in paesaggio artefatto, piegandolo alle proprie esigenze produttive. Dalle pianure agli alpeggi quasi tutte le forme naturali sono state modellate «coscientemente e sistematicamente» dalla mano dell’uomo. Per Sereni è necessario ripartire dalle grandi trasformazioni operate nel corso del Rinascimento, quando grazie all’evoluzione delle tecniche agronomiche, delle sistemazioni montane e delle bonifiche idrauliche, si raggiunse il limite estetico e storico del «bel paesaggio». Tuttavia, per conservare quelle forme storiche e, contemporaneamente, mitigare l’effetto di frane alluvioni occorre sottoscrivere un piano per il paesaggio che sia in grado di coordinare e se necessario indirizzare la libera iniziativa privata. Per il successo di un piano di questo tipo è indispensabile coinvolgere pienamente la forza lavoro e impedire che il settore primario resti appannaggio di poche, grandi aziende monopolistiche. Come ha ricordato Sereni, infatti, soltanto ai contadini e ai piccoli agricoltori «può essere affidata la salvezza ed il progresso della nostra agricoltura» e, per inciso, del nostro «bel paesaggio».
Per gentile concessione dell'Istituto Alcide Cervi