Particolare della copertina del libro

In libreria

Effimero Novecento. Il costume degli italiani

a cura di Lorenzo Benadusi, Claudio Giunta, Elena Papadia

6 dicembre 2024
Versione stampabile

Ma non «pezzi di costume». Chi se ne frega del costume? Lascia che se ne occupino quelli che fanno le colonnine sul «Mondo»
(Italo Calvino a Leonardo Sciascia, 25 novembre 1957)

Ci sono molti modi per raccontare il Novecento: è il secolo della violenza; il secolo delle masse, delle religioni politiche, degli esperimenti totalitari, del welfare state, della democrazia. Ma esiste anche – così visibile da passare quasi inosservato – un Novecento effimero nel quale ciò che cambia è la vita privata delle italiane e degli italiani: il loro modo di pensarsi, vestirsi, vivere il corpo e la sessualità, organizzare la propria vita, i propri consumi, le case, i viaggi, le città. Attraverso il prisma delle cronache di costume, questo libro descrive appunto mutamenti e permanenze quotidiane dagli ultimi anni dell’Ottocento fino alla grande trasformazione degli anni Sessanta del Novecento. La storia pubblica delle nostre storie private.

Lorenzo Benadusi è professsore presso il Dipartimento di Studi umanistici dell’Università di Roma Tre. 
Claudio Giunta è professore presso il Dipartimento di Lingue e letterature straniere e culture moderne dell'Università di Torino. È stato professore nell’Università di Trento dal 2014 al 2024.
Elena Papadia è professoressa presso il Dipartimento di Storia antroplologia religioni arte spettacolo dell'Università La Sapienza di Roma.

Dal Capitolo 4. Alla scoperta dell'italia (1948-1965)

L’intellettuale nella grande città

Nel quarto di secolo che va dalla fine della guerra ai primi anni Settanta mezza Italia va a vivere in città. Tra il 1951 e il 1971 Milano passa da un milione 275 mila abitanti a un milione 730 mila, Torino da 720 mila a quasi un milione 200 mila, Roma da 1 milione 650 mila a quasi 2 milioni 800 mila, Napoli da poco più di un milione a un milione 227 mila. Questi provinciali inurbati hanno  –  nell’acida descrizione di Flaiano  –  l’innocente stolidità dei selvaggi («assediano i magazzini attratti dalle chincaglierie»), e trasmettono la sensazione di un brulichio animale, come d’insetti, che fa pensare all’horror vacui evocato da Piovene e alle «catastrofiche saturazioni» di Bocca: 

Il quartiere in cui vivo è un campione della piccola Italia venuta attorno a Roma dal Sud e dalle zone agricole vicine. In pochi anni questa immigrazione lo ha reso enorme e detestabile. I paesani vi si sono trasferiti con l’idea di rincorrervi un certo piacere [...]. Il superfluo li affascina, non resistono alle sue tentazioni, ma le vogliono economiche e prestigiose. Assediano i magazzini attratti dalle chincaglierie e se ne parano senza ritegno. Adorano il rumore, lo sentono come un segno di vita e di liberazione [...]. I ragazzi fanno il giro dell’isolato in motocicletta. Le madri, sospettose verso tutto ciò che esula dalla tribù. I padri, quando la domenica escono guidando l’automobile con sei persone dentro, la nera nonna messa in un angolo, vanno a vedere il traffico del centro. 

Insieme alla volgarità del denaro e dei consumi vistosi, è questo – questo addensarsi in spazi ristretti di una folla grossolana e vociante  –  l’aspetto della modernizzazione che più di ogni altro disgusta gli intellettuali: e non solo quelli italiani, se nel 1962 Lucia e Morton White poterono pubblicare un intero libro, The Intellectual Versus the City, centrato sull’anti-urbanesimo americano «da Thomas Jefferson a Frank Lloyd Wright».

Nella Scoperta dell’Italia, Bocca dedica un capitolo intero alla Grande fuga, cioè allo spopolamento delle campagne, alla corsa verso le città. Del fenomeno colpiscono, più ancora che le dimensioni, la rapidità, come di un fiume che abbia improvvisamente rotto argini secolari, dilagando nelle pianure: 

Al Nord muore la sterile civiltà alpina, in cinquant’anni le valli del Piemonte hanno perso cinquanta abitanti su cento, in certe valli del Cuneese lo spopolamento è del novanta per cento. Nei grandi villaggi del Sud si chiudono le casine riservate ai «don» e ai «galantuomini», il loro figli cambiano mestiere, lasciano le fattorie e vanno in città [...]. Più di 2.000 poderi abbandonati nel Senese; seicentomila ettari sull’Appennino tosco-romagnolo; quattromila cascine abbandonate nelle valli del Cuneese, un villaggio come Briga Alta che dai 2.790 abitanti di anteguerra scende a meno di trecento. 

Bocca dice di comprendere le «ragionevoli ragioni dell’esodo», poi però aggiunge di non sapersi spiegare «l’ansia collettiva che spinge i contadini verso chi sa quale destino»: 

A volte si è tentati di pensare a una inquietudine cosmica. Sarà letteratura, ma certe frenesie, certe angosce collettive sembrano rispondere a un richiamo arcano. Alcune cascine dell’alta Langa sono state abbandonate come fuggendo una catastrofe, portando via solo l’essenziale. In una hanno lasciato un libro aperto sulla tavola e le fotografie dei vecchi sulle pareti verde-azzurro come il solfato di rame che si dava alla vigna.

Perché tanta fretta? Stavano così male in campagna? Il piemontese Bocca avrebbe forse potuto tornare con la memoria ai racconti di Pavese e di Fenoglio: chi ha in mente le poche pagine disperate di Pioggia e la sposa, per dire, fa meno fatica a comprendere la «frenesia» dei contadini stanchi del contado, e la loro ingenua fiducia nell’antico detto che l’aria della città rende liberi. «L’uomo – scrive George Saunders riflettendo su quell’atroce suk postmoderno che è l’aeroporto di Dubai – è un essere che desidera migliorare la propria sorte». Chi legge o rilegge le considerazioni degli intellettuali italiani sull’inurbamento del dopoguerra rimane stupito (col senno di poi, si capisce) davanti al fatto che persone tanto intelligenti abbiano potuto ignorare così pervicacemente questa semplice verità. 

Ma è un sentimento diffusissimo, pervasivo. Sui giornali dell’epoca si stenta a trovare articoli che documentino le nuove forme della vita cittadina e i modi attraverso i quali l’antica compagine delle città italiane risponde ai bisogni di una popolazione in crescita vorticosa: e non solo i problemi ma anche le occasioni, i nuovi strumenti di vita che l’urbanizzazione porta con sé. La chiave è semmai quella è elegiaca di cui abbiamo colto qualche testimonianza nel viaggio lungo il Po di Zavattini, o che si coglie – ancora più greve – nelle pagine milanesi e napoletane di Anna Maria Ortese, oppure in quelle di Musatti: 

L’accrescimento del reddito, la diffusione della motorizzazione e dei mezzi di comunicazione, l’interpenetrazione culturale [...] non hanno provocato per altro la rivoluzione nelle città. In sostanza, l’imbarbarimento estetico, la perdita di certe civili abitudini, una più diffusa inquietudine che avvelena l’antica quiete provinciale, si rivelano come il principale portato dei tempi nuovi, che ha raggiunto anche le città minori dell’Italia centrale.

Altrimenti, se non elegiaca, la chiave per la rappresentazione delle città è quella dell’inchiesta o del pamphlet indignato. L’11 dicembre del 1955 Manlio Cancogni pubblica sull’«Espresso» un’inchiesta sulla speculazione edilizia che il sindaco Salvatore Rebecchini «e il Campidoglio hanno permesso e incoraggiato» soprattutto a vantaggio della Società Generale Immobiliare: Quattrocento miliardi è il titolo (occhiello: Dietro il sorriso di Rebecchini), ma celebre è soprattutto il titolo di richiamo in copertina: Capitale corrotta = Nazione infetta, che diventerà subito proverbiale.

In queste inchieste prevale il tono denotativo dell’osservatore, anche quando all’origine dell’indagine, come nel caso di Cancogni, c’è l’intenzione di sollevare uno scandalo. La voce dello scrivente non scompare ma cerca di farsi discreta, referenziale. Eccezione alla regola, il Bocca delle cronache sulle città (Miracolo all’italiana, 1962; La scoperta dell’Italia, 1963), con incipit ormai celebri: «Fare soldi, per fare soldi, per fare soldi: se esistono altre prospettive, chiedo scusa, non le ho viste» (Vigevano), «Tortellini burro e oro? Yes, please. Al signore ci facciamo un bel misto di lingua, cotechino e zampone? Ja, bitte. E gli iperborei si ingozzano, povere anime...» (Carpi); e con ritratti appena accennati eppure folgoranti: «Se non c’è stata l’illuminazione di uno spirito santo, chi consentirebbe al mio interlocutore, appena alfabeta, di sentenziare con sicurezza: “A me se mi chiudono il Congo me ne sbatto. Io ti penetro in Birmania e aumento le vendite”?» (in verità, però, una volta travasata nei libri, anche la prosa scorciata di Bocca perde smalto, suona impressionistica, affrettata, è uno stile che stanca; e anche le punte polemiche restano in superficie per un difetto di argomentazione).

Effimero Novecento. Il costume degli italiani a cura di Lorenzo Benadusi, Claudio Giunta, Elena Papadia, Il Mulino, 2024, pp.368