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L'innovazione sostenibile e i suoi nemici. Il caso della carne colturale

di Marina Romeo

7 febbraio 2025
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La ricerca si è proposta di esplorare l'innovazione sostenibile nel settore agroalimentare attraverso l'analisi della carne colturale, un'alternativa emergente alla produzione di carne convenzionale. Con l'avvento della globalizzazione e la liberalizzazione dei mercati agricoli, sono emerse nuove sfide riguardanti la sicurezza alimentare (food safety), la sicurezza degli approvvigionamenti (food security) e la sostenibilità dei processi agricoli. 

La produzione tradizionale di carne è caratterizzata da un notevole impatto ambientale, che include l'emissione di gas serra, l'inquinamento delle risorse idriche e lo sfruttamento degli animali, con la necessità di garantirne il benessere. In tal senso, la carne colturale, sviluppata attraverso avanzate tecniche di ingegneria tissutale, rappresenta una alternativa sostenibile assai promettente. Si mira, quindi, a fornire una analisi dettagliata dei presupposti storici che hanno caratterizzato la filiera della carne e le problematiche che essa proietta nell’agenda regolativa europea, per poi analizzare il fenomeno tecnologico, i processi di coltura, i mezzi di produzione e le implicazioni etiche e morali associate all’innovazione della carne colturale. Si guarda alle sfide tecnologiche, economiche e sociali legate alla produzione di carne colturale, tenendo conto anche delle risposte dei consumatori. 

Un'attenzione particolare è rivolta al quadro normativo europeo relativo ai novel food, che disciplina l’immissione sul mercato dei nuovi alimenti, ai sensi del Regolamento (UE) 2015/2283. Si approfondisce la questione della terminologia e della qualificazione del prodotto, fondamentale per garantirne la corretta identificazione e la trasparenza verso i consumatori. Si dà conto, altresì, delle specifiche disposizioni normative che regolano il processo di approvazione e commercializzazione della carne coltivata in Europa. Si analizzano le procedure di valutazione dei rischi e di autorizzazione, alla luce del principio di precauzione sancito dall'articolo 191 del Trattato sul Funzionamento dell'Unione Europea (TFUE). Inoltre, si considerano i ruoli della Commissione Europea e delle agenzie competenti, come l'Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (EFSA), nelle procedure esaminate, guardando anche al corrispondente quadrante statunitense. 

Ci si sofferma, naturalmente, sulla recente presa di posizione, contraria a questa innovazione, del legislatore italiano, valutandone i pro e i contra in modo per quanto possibile obiettivo. Infine, un'analisi delle esperienze internazionali permette di evidenziare le tendenze globali e le opportunità future per la diffusione della carne colturale, tenendo conto dei recenti sviluppi negli Stati Uniti e non solo. 

L'obiettivo principale è contribuire a una comprensione più approfondita delle dinamiche globali che guidano la transizione verso modelli alimentari più sostenibili ed eticamente responsabili, promuovendo una visione innovativa e consapevole del settore agroalimentare.

Marina Romeo ha conseguito la laurea presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Trento.

Dal capitolo 5. Lab-grown meat: la regolamentazione EU (pagg. 141-143)

Non sfugge anche solo ad una lettura sommaria del tema l'evidente contraddizione fra i presupposti della "transnazionalità" del diritto Ue di cui si è detto e lo sfruttamento che ne fanno le clausole normative di mutuo riconoscimento: appare, infatti, quasi paradossale che al fine di sfuggire alle finalità dell'integrazione economica gli Stati membri possano fare appello alla natura "comunitaria" del diritto dell'Unione europea e ai suoi conseguenti confini applicativi per mantenere in vigore un diverso regime giuridico per le merci e i servizi prodotti e realizzati sul territorio domestico.

Occorre, dunque, porsi l'interrogativo circa l'effettiva rilevanza delle norme in esame anzitutto nella prospettiva del diritto dell'Unione europea, adottando come criterio di discernimento la giurisprudenza della Corte che si è occupata del principale (e più evidente) effetto collaterale delle disposizioni che generano artificialmente situazioni puramente interne, ossia le possibili discriminazioni alla rovescia in danno dei cittadini dello Stato che le introduce o mantiene in vigore.

A tal proposito, il Legislatore italiano ha motivato l’urgenza di adottare un atto normativo di questo tipo con la necessità di tutelare il patrimonio agroalimentare nazionale, oltre che la salute dei cittadini. Tuttavia, questa finalità rivela che il Legislatore guarda con disvalore alla carne coltivata, e ritiene che un prodotto simile porrebbe in pericolo il Made in Italy, inteso come valore dell’insieme delle produzioni alimentari tradizionali.

A protezione della salute umana, l’articolo 2 vieta agli operatori del settore alimentare (OSA) di «impiegare nella preparazione di alimenti, bevande e mangimi, vendere, detenere per vendere, importare, produrre per esportare, somministrare o distribuire per il consumo alimentare ovvero promuovere ai suddetti fini alimenti o mangimi costituiti, isolati o prodotti a partire da colture cellulari o di tessuti derivanti da animali vertebrati».

La norma richiama il principio di precauzione di cui all’articolo 7 del Regolamento n. 178/2002; i suoi precetti, tuttavia, sembrano debordare ampiamente i limiti posti da quel principio.

Il principio consente di adottare misure provvisorie anche interdittive alla circolazione di alimenti, qualora emerga la possibile insorgenza di effetti dannosi per la salute e sussista un’incertezza dal punto di vista scientifico sulla sicurezza dell’alimento. Tali misure, tuttavia, debbono essere proporzionate e realizzare un giusto equilibrio tra la tutela della salute e la compressione del mercato unico.

È evidente che una misura inibitoria imposta con una legge imperativa dello Stato non potrà mai considerarsi giustificata dal principio di precauzione, poiché non è provvisoria.

Il divieto, inoltre, riguarda un prodotto che ancora non esiste in quanto nessun nuovo alimento a base di carne coltivata è stato ancora autorizzato dalla Commissione. Il che rende impossibile ogni valutazione in merito alla sua sicurezza.

In secondo luogo, emergono questioni rilevanti riguardo alla trasparenza e al diritto all'informazione dei consumatori: con la prevista diffusione delle carni coltivate sul mercato, sorgeranno particolari problemi soprattutto per i prodotti trasformati. In questi casi, l'indistinguibilità tra ingredienti "naturali" e quelli prodotti in vitro potrebbe portare sia a un incremento delle frodi che a un consumo sempre meno consapevole e informato di tali prodotti.

Inoltre, le cronache attuali mettono in luce il problema "sociale" legato alle implicazioni delle nuove tecnologie sull'agricoltura e sulla cultura connessa alle pratiche agro-silvo-pastorali. È stato osservato, con ragione, che la transizione verso alimenti prodotti in vitro potrebbe segnare la "fine del cibo" come combinazione di fattori nutrizionali, organolettici e culturali, considerando la complessità dell'atto alimentare che integra l'intero percorso del cibo e riflette la civiltà dei rapporti tra lavoro, storia, territorio e ambiente. Così, mentre le valutazioni di sostenibilità ambientale e, in prospettiva, economica suggeriscono tendenzialmente un giudizio positivo per i sostituti dei prodotti di origine animale, non si può dire lo stesso per la dimensione sociale e culturale. Se alla "fine del cibo" corrispondesse la "fine dell'agricoltura", e con essa la perdita della diversità di conoscenze e culture, le conseguenze sarebbero notevoli. Si teme che la diffusione su larga scala di queste tecnologie produttive, insieme all'aumento dei margini di redditività garantiti dall'industrializzazione, possa travolgere non solo l'agricoltura come settore economico, ma anche un'intera organizzazione sociale che da essa dipende, trasformando irreversibilmente i nostri tratti culturali e identitari.

Il quadro così delineato spiega perché, sotto molti aspetti, possa rendersi necessario un intervento normativo a vari livelli. Se l'avvento delle carni coltivate appare pressoché inevitabile in molte parti del mondo, le ragioni di opposizione esposte richiedono risposte, specialmente in termini di fiducia che deve essere costruita attraverso processi di governance e scelte regolatorie e trasparenti, basate sulla scienza e accompagnate da strategie comunicative proattive.

Dalle Conclusioni (pag. 161)

Nel frattempo, si rendono necessarie delle azioni mirate a promuovere la consapevolezza dell'opinione pubblica,  consentendo così a ogni  individuo di scegliere liberamente quali alimenti consumare.

Le  campagne  informative non dovrebbero limitarsi a spiegare cosa sia la carne coltivata, ma dovrebbero anche far comprendere come gli stili alimentari di ciascuna persona influenzino non solo l'economia locale, ma anche quella globale e, non certo per ultima, la sostenibilità ambientale. In altre parole, è importante che le scelte alimentari tengano in considerazione anche gli impatti ambientali legati alla produzione, allo  stoccaggio e al trasporto dei  prodottiche abitualmente consumiamo.

Per quanto concerne la sicurezza del consumatore, i rischi microbiologici e la presenza di antibiotici nella carne coltivata, questi sono sostanzialmente simili a quelli della carne convenzionale,  poiché la produzione avviene in laboratori dotati di efficaci sistemi di controllo e monitoraggio. Tuttavia, sono necessari studi specifici di valutazione del rischio per le diverse tipologie di prodotto. Il processo di produzione deve aderire a standard di sicurezza uniformi e specifici per ogni tipo di prodotto, basati su linee guida sviluppate attraverso la collaborazione tra industria, gruppi di ricerca, mondo accademico ed autorità regolatorie.

Paper pubblicato con licenza CC-BY-NC-ND 4.0 Internazionale ed è liberamente scaricabile dall'archivio Trento Law and Technology Research Group.