La Chiesa cattolica si è occupata da sempre dei popoli indigeni, vale a dire, da quando questa categoria è stata concepita e ha iniziato a essere impiegata, a partire dall’età dell’espansione europea fino ad arrivare alla condanna degli abusi, frutto del Concilio Vaticano II. La crescente sollecitudine della Chiesa cattolica ha riguardato diversi, e rilevanti, aspetti della tutela di tali popolazioni, inclusa la necessità di proteggerle dal degrado ambientale, ed è culminata nella svolta impressa dal papato di Francesco, il quale ne ha operato una significativa rivalutazione, vedendoli non più solo come legittimi destinatari di misure di protezione anche rispetto all’ambiente in cui vivono, ma anche come custodi stessi della ‘casa comune’ e quindi assegnando loro un prezioso e insostituibile ruolo che trascende quello di (mero) soggetto vulnerabile. Questo studio intende ripercorrere tale evoluzione, non tanto ricostruendo lo sviluppo del magistero della Chiesa cattolica secondo un criterio prettamente cronologico, quanto individuando le principali direttrici di una riflessione plurisecolare, che sono infine confluite nella prospettiva olistica di Francesco.
Rossella Bottoni è professoressa presso la Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Trento
Dalle Conclusioni (pagg. 169-172)
[…]
Già nel corso del XV secolo i pontefici dovettero confrontarsi con la questione del trattamento delle comunità autoctone nelle isole e sulle coste africane via via conquistate dai portoghesi. È stata però la ‘scoperta’ dell’America, naturalmente, insieme alla progressiva, ma rapida, presa di coscienza dell’esistenza di terre immense, abitate da popolazioni numerose, la cui stessa realtà era stata fino a quel momento una possibilità inconcepibile, a sconvolgere la visione tradizionale e a costringere a un ripensamento funzionale a spiegarne la presenza nel piano di Dio. […] si è cercato di ricostruire il ruolo che gli interventi papali – ma più precisamente tre specifiche bolle, la Dum diversas del 1452 e la Romanus pontifex del 1455 di Niccolò V e l’Inter cetera del 1493 di Alessandro VI – hanno avuto nella ‘dottrina della scoperta’. L’uso delle virgolette è d’obbligo: quello che più correttamente dovrebbe essere definito ‘costrutto giuridico internazionale noto come dottrina della scoperta’ è infatti difficilmente definibile una ‘dottrina’. Non enuncia una ‘verità’ o ‘tesi teologica’, ma si tratta di un principio o di un insieme di regole consuetudinarie, la cui dimensione concettuale è stata sommersa da considerazione militari, politiche, commerciali e geografiche. In questa prospettiva, appare corretta la dichiarazione (pur da alcuni criticata) della Nota congiunta sulla “Dottrina della scoperta” dei Dicasteri per la Cultura e l’Educazione e per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale del 30 marzo 2023, secondo cui tale costrutto «non fa parte dell’insegnamento della Chiesa cattolica».Con questo, non si intende qui assumere una posizione apologetica, volta a ridurre o negare le responsabilità storiche della Chiesa, che il documento stesso d’altra parte riconosce. Da un lato, le bolle papali hanno concorso con altri testi – lettere patenti, carte reali, versi biblici e, non ultime, sentenze di tribunali secolari – a offrire un titolo legittimante ai conquistatori; dall’altro lato, esse testimoniano di uno specifico clima culturale e politico fondato sull’ideologia ampiamente diffusa e certamente non confinata alla Chiesa (né tantomeno in essa originata) per cui la presunta superiorità di uno o più popoli (in questo caso gli europei) giustifica(va) il diritto-dovere di civilizzare i ‘barbari’. […].
L’assunto basato sulle dicotomie superiorità/inferiorità e nazioni civilizzate (e civilizzatrici)/genti da civilizzare si è concretizzato in quelle esperienze di evangelizzazione dove l’accettazione della cultura dei colonizzatori (si è fatto in particolare l’esempio di quelli spagnoli) era parte del processo di conversione al cristianesimo. Si è parlato al riguardo di transculturazione: gli indigeni dovevano essere prima ‘uomini’ – non solo membri del genere umano (questione su cui, com’è noto, si discusse accesamente), ma anche recettori dei costumi sociali e dei fondamenti della vita politica e civile propri dei popoli ‘civilizzati’ – e solo dopo potevano essere anche cristiani. Il medesimo assunto è stato an¬che parte integrante dell’atteggiamento prevalente di tolleranza nei confronti delle pratiche della schiavitù e della tratta, sebbene spesso si siano levate voci contrarie. In realtà, i pontefici iniziarono presto (già nel XV secolo) a censurare specifiche dinamiche (schiavizzazione prima dei neo-convertiti e poi più in ge¬nerale delle popolazioni americane), ma solo nell’Ottocento la condanna fu totale (estesa quindi anche agli africani) e censurante inequivocabilmente tanto la compravendita degli schiavi quanto la riduzione stessa in schiavitù.
Con l’archiviazione della questione della liceità e legalità della schiavitù tanto nella Chiesa cattolica quanto nella comunità internazionale, l’attenzione si è spostata sulle nuove forme di asservimento che degradavano i popoli indigeni, segnando un discorso che, centrato inizialmente sul diritto al lavoro dignitoso, si è esteso poi a questioni più generali di giustizia sociale. La svolta nell’insegnamento cattolico è stata determinata, come risaputo, dallo sviluppo della dottrina sociale, mentre l’avvio di un nuovo discorso sui popoli indigeni è stato reso possibile dalla sempre maggiore rilevanza che in questa ha acquisito il tema dei diritti dell’uomo. Già a partire dalla Pacem in terris e poi con il Concilio Vaticano II sono state introdotte delle novità foriere di implicazioni per il pensiero e l’azione della Chiesa cattolica sulla questione indigena: l’apertura al riconoscimento dei diritti delle minoranze (tra cui inizialmente erano considerati i nativi, che poi con Giovanni Paolo II hanno iniziato a essere distinti dagli altri gruppi minoritari e, infine, con Francesco, sono considerati separatamente in quanto eletti principali interlocutori nella crisi climatica); la considerazione per gli aspetti culturali, poi maturata nella riflessione sull’inculturazione (centrale nel discorso più recente sugli indigeni); la maggiore presenza e partecipazione della Santa Sede nelle organizzazioni internazionali per diffondere il messaggio della Chiesa a favore della dignità di ogni essere umano e per lo svolgimento delle sue funzioni pastorali (si è parlato in particolare della collaborazione con l’OIL, promotrice delle prime forme di tutela internazionale dei diritti dei popoli autoctoni); il rispetto del diritto di libertà religiosa (ponendo così una pietra tombale sul dibattito che tanta parte aveva avuto nell’età delle conquiste sulla legittimità dell’uso di mezzi coercitivi per convertire i nativi).
L’evoluzione più recente ha riguardato lo sviluppo del concetto di ‘ecologia integrale’. Già Giovanni Paolo II (a cui si devono i primi riferimenti al rapporto rispettoso tra popoli indigeni e natura) aveva manifestato una preoccupazione per la distruzione dell’ambiente naturale e, insieme, umano, auspicando una ‘conversione ecologica’, mentre Benedetto XVI aveva approfondito la riflessione sull’ecologia umana. Questa eredità è stata ripresa da Francesco, che ha integrato definitivamente il tema della conversione ecologica nella dottrina sociale della Chiesa. La lettera enciclica Laudato si’ sulla cura della casa umana del 24 maggio 2015 chiama l’intera umanità all’impegno di prendersi cura della Terra, perché questa è abitata da tutti gli esseri umani e tutti sono esposti alla crisi-socio ambientale. Tuttavia, la discriminazione storica, le violazioni dei diritti umani e le forme di esclusione sociale e politica dei popoli indigeni rendono loro più difficile la gestione di questi problemi, alimentando migrazioni forzate. La prospettiva cattolica della cura della ‘casa comune’ non si limita però a vedere tali comunità meramente come soggetti vulnerabili destinatari, quasi passivi, di misure di tutela, ma si arricchisce di una fondamentale dimensione di empowerment, assegnando loro il ruolo – naturalmente non esclusivo, ma comunque ben più attivo – di custodi del creato. Così, proteggere i popoli indigeni, con il loro patrimonio di conoscenze, vuol dire concorrere alla salvaguardia della biodiversità assicurando la sopravvivenza della specie umana nel suo complesso.
Come si è precisato, non si tratta di un compito affidato loro in via esclusiva, bensì di una promozione dei loro saperi coerentemente integrata nel concetto chiave di ecologia integrale, che a sua volta è strettamente legato a quello di evangelizzazione. A questo proposito, si è messo in evidenza che l’inseparabilità della cura delle persone da quella degli ecosistemi è ampiamente sottolineata anche in molti movimenti di pensiero secolare. Tale collegamento, però, acquista una specifica dimensione nel contesto dell’insegnamento della Chiesa cattolica e nella prospettiva dell’inculturazione dei cammini di evangelizzazione. In questo studio, da un lato, si è dato rilievo all’inculturazione come forma di sollecitudine della Chiesa per i popoli indigeni: in questa prospettiva, l’essere cattolici non richiede più ai popoli non europei la rinuncia alla propria cultura (cosa, in ogni caso, evidentemente diversa dall’accettazione incondizionata di tutte le sue manifestazioni, incluse le espressioni incompatibili con la fede e la vita della Chiesa). Dall’altro lato, si è messa in evidenza la sollecitudine indigena per il creato come nuova forma di inculturazione del Vangelo. Questo aspetto è stato indicato nell’esortazione apostolica post-sinodale Querida Amazonia del 2 febbraio 2020, la quale ha affermato che l’accoglimento del Vangelo da parte di una comunità ne trasforma la cultura, ma anche la Chiesa stessa «si arricchisce di ciò che lo Spirito aveva già misteriosamente seminato in quella cultura», palesandole «nuovi aspetti della Rivelazione e regalandole un nuovo volto» (n. 68).
L’analisi condotta in questo studio si chiude con la Querida Amazonia, la quale però – in sé stessa – non costituisce un punto di fine, ma di inizio: quello di un processo di discernimento che, come auspicato da diversi esponenti della causa indigena, continui il processo di ‘decolonizzazione’ del modello culturale occidentale della Chiesa.
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