La condizione femminile nel Medioevo, in chiave sociale, culturale, letteraria, è stato uno dei molteplici interessi di Ferruccio Bertini, quando ancora non era così diffusa la prospettiva di genere nella critica letteraria. All’insegna della varietà tematica tanto cara a Bertini – riflesso di una non comune vivacità intellettuale –, questo volume raccoglie i saggi di allievi e amici, presentati in occasione del congresso su “Il femminile nel Medioevo” svoltosi a Firenze a dieci anni dalla sua scomparsa. I contributi affrontano la problematica sotto i più diversi aspetti: letterari, linguistici, storici, giuridici e religiosi. Completa il volume la ristampa di due saggi sull’argomento dello stesso Bertini, a riprova dell’attualità del suo approccio scientifico.
Caterina Mordeglia è professoressa ordinaria presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell'Università di Trento.
Dalle Conclusioni (pagg. 172-175 )
Ma contemporaneamente, la grande letteratura ha la sua ragione d’essere nella capacità di andare oltre il proprio codice, operando attraverso la creatività specifica del testo una problematizzazione delle certezze, che arriva fino al loro stravolgimento o rovesciamento. Il mercante di Venezia di Shakespeare ce ne offre l’esempio estremo a proposito della discriminazione razziale, in certo senso parallela a quella di cui è stata sempre vittima la donna: del resto la protesta dell’ebreo Shylock è riecheggiata da quella che Emilia formula nell’Otello a nome di tutte le donne. Ma anche dove non si creano contrapposizioni violente, lo spirito anti-conformistico (a volerlo chiamare così in modo assai riduttivo) è in grado di creare a sua volta la tradizione di un anti-codice.
Noi oggi di letteratura abbiamo parlato direttamente soltanto con Caterina Mordeglia a proposito dell’Asinarius, che non sembra davvero potersi dire opera di grande letteratura; ma dove il superamento dei dati sociologici si ottiene comunque, non per opera della creatività individuale, ma a causa della presenza di un altro vincolo conformistico: al moralismo arcigno e misogino, proprio delle commedie elegiache, e indirizzato dalla citazione evangelica che illumina l’obbedienza della ragazza alla decisione paterna di farla sposare con l’uomo-asino attraverso il ricordo del momento più altro e straziante dell’umanità del Cristo (non mea sed patria fiat † liberata † voluntas), si mescola infatti il linguaggio ovidiano dell’indulgenza e della passione, temperato a sua volta dalla stessa eleganza formale, che si distende nella descrizione della bellezza femminile e nella registrazione innocente del desiderio sessuale.
Quando si proietta in giudizio di valore, l’antinomia viene gestita attraverso un’accorta distribuzione dei personaggi: la madre che vuole eliminare il suo parto mostruoso, trovando l’opposizione vincente del marito, è bollata dall’univoco epiteto di iniqua, mentre alla giovane principessa viene concessa la drammatizzazione (cioè l’uso del discorso diretto) che permette un autoelogio.
Ma la varietà è anche soprattutto funzione del carattere composito dei contenuti, esibito con tutta evidenza dagli elementi fiabeschi della narrazione e concretato nel rapporto con l’indiano Vikramacarita: rapporto che coinvolge motivi e modelli narrativi, ci è stato mostrato, più che testi, ma che non manca di essere inquietante quando proprio la frase evangelica sopra citata vi riscontra un suo analogo – peraltro non ancorato all’esempio divino, ma alla vetusta topica del destino.
Gli altri interventi hanno coperto in modo equilibrato diversi aspetti della problematica: Giuseppe Cremascoli il versante linguistico, Agostino Paravicini Bagliani il versante storico, Antonio Placanica il versante giuridico, Francesco Santi quello propriamente religioso.
Cremascoli delinea il percorso di tre parole chiave della femminilità, mulier, uxor, mater tra la fondazione paretimologica di Isidoro di Siviglia e il Catholicon quattrocentesco di Giovanni Balbi.
Mulier è rapportato a mollis (come troveremo anche nel Cymbeline di Shakespeare, dove mulier è definito contrazione di mollis aer, traduzione latina di tender air che designava in un enigma la protagonista Innogen): si contrappone evidentemente al massiccio corpo semantico costituito da vir, vis e virtus, con riferimento peraltro alla sola forza fisica: Balbi precisa che le modalità della nascita prospettano una pari dignità con l’uomo (nec domina nec ancilla parabatur sed socia). Assai meno “progressista” la derivazione alternativa da mulcere, che definisce la donna strumento di gratificazione per il maschio.
Uxor è rapportata a unctio, che a sua volta può riguardare l’unzione degli stipiti delle porte, cerimonia compiuta dalla sposa (notizia derivata da Servio) o del corpo delle spose stesse.
Mater infine è accostata a mamma, organo altamente simbolico e disponibilissimo a diventare voce onomatopeica, e anche a materia, sostanza passiva su cui interviene il padre quale “causa” della generazione (teoria che può ricordare quella di Anassagora, grazie alla quale Eschilo nelle Eumenidi ottiene il proscioglimento di Oreste dall’accusa di matricidio).
Agostino Paravicini Bagliani è tornato sull’argomento di cui è conoscitore ineguagliabile, lo scandalo della papessa Giovanna, per offrircene una visuale specifica: l’evoluzione nel tempo della condanna morale da una motivazione inizialmente fondata sull’inganno perpetrato dalla persona in questione sui candidati elettori a una vera e propria “misoginia clericale”, avente per obiettivo primario il comportamento sessuale, che la conduce a partorire un bambino, svelando così l’inganno: in ardorem deveniret libidinis è al riguardo la definizione di Boccaccio nel De claris mulieribus e concubina potius quam papa il lapidario commento di un anonimo della cronaca tardo-quattrocentesca di Schedel.
Il passo decisivo del razzismo maschilista era peraltro già stato fatto da Iacopo da Varazze, trasformando una delle vicende più idiosincratiche che mai siano accadute in un paradigma della negatività femminile:
Tale è infatti la natura delle donne le quali, quando devono intraprendere qualcosa, all’inizio sono piene di presunzione e audacia, a metà di stoltezza e alla fine si ritrovano nella vergogna.
L’impressione più suggestiva si ricava però a mio parere dai versi di Enrico di Monaco dove l’immagine della colpevole si staglia in opposizione polare alla Vergine Maria: so sei dein leib verflucht under allen weiben.
Molto si impara anche dalla relazione di Placanica che esamina la condizione femminile attraverso la comparazione storica tra diritto civile e diritto canonico, tra concordanze e tensioni che portano a concludere come il diritto canonico, tenda ad attenuare la durezza del regime patriarcale, sia perché capace di maggiore concretezza e flessibilità, sia perché tenuto a rispondere all’esigenza religiosa dell’uguaglianza dei sessi sul piano etico e spirituale che Paolo formulava a Galati 3.28. Aiutano a capire la complessità del tema le dichiarazioni dello stesso Paolo sulla superiorità del maschio (Prima lettera ai Corinzi 11.3, Efesini 5.22-24) e sull’uso del velo per le donne motivato dal fatto che il volto femminile, a differenza del maschile, non è “immagine di Dio” (Prima lettera ai Corinzi 11.7; posizione superata da Bonaventura e Tommaso d’Aquino).
Molti appunto sono i punti nodali esplorati da Placanica; mi limito a ricordarne solo alcuni: la discussione sul genere grammaticale maschile come comprensivo di soggetti femminili (anche noi profani possiamo constatarne l’impressionante attualità, anche perché la prevalenza del maschile è esaltata in modo protervo da Giovanni da Genova come “antonomasia risultante dall’eccellenza”); quello sulle deroghe all’incapacità giurisdizionale della donna che si fondano moribus, cioè sulla consuetudine e sulla ragionevolezza (per quanto scivolosi possano essere questi concetti), il relativo “progressismo” della disciplina canonica del matrimonio che indica come bilaterale sia l’obbligo della coabitazione, sia la responsabilità dell’adulterio, e toglie all’uomo il monopolio della testimonianza decisiva nelle cause di nullità per impotentia coeundi.
Fa invece una certa tristezza constatare come le disposizioni pregiudizialmente favorevoli alle donne non superino l’inferiorità ma la certifichino in quanto si pongono a protezione della loro strutturale infirmitas (ad esempio una donna è considerata più scusabile se compie una trasgressione per metus).
Per finire, l’affascinante proposta di Francesco Santi sulla mistica femminile. L’estasi viene definita come prossimità all’assoluto, che promana dal divino stesso e comporta lo straniamento dal creato, non la sua sparizione, l’eliminazione della natura e della storia che sarebbe contraria alla natura comunicativa del fenomeno. Si produce anzi un’inaudita vicinanza al finito, rappresentato eminentemente dal concetto e dall’esperienza psichica universale della maternità: non la maternità fisica ed empirica, tanto è vero che Santi deve precisare che le sue mistiche non sono escluse dalla possibilità di una vita familiare, e anche che nella sua prospettiva il femminile può manifestarsi anche nei maschi, come prova “la raccomandazione di Francesco ai suoi frati, perché alternativamente fossero mamme gli uni degli altri” (e io penso allo spiazzante discorso sulla maternità di Dio tenuto durante il suo brevissimo pontificato da Giovanni Paolo I).
In base a questa definizione l’estasi viene contrapposta al monachesimo, inteso come organizzazione sociale e gerarchica, che per Santi non rappresenta lo spirito innovativo del Medioevo, ma piuttosto una continuazione dell’antico (delle “aristocrazie pagane”), al termine del suo lungo processo di liquidazione.
Gli esempi addotti (Atumoda e soprattutto Rosvita) insistono in modo emblematico sulla concrezione e cristallizzazione dei significati che si producono nella vicinanza della morte, da cui discende nel XIII secolo l’invenzione – anche e soprattutto figurativa – della Pietà, esito della contraddizione suprema per cui “il Cristo stesso ha posto la possibilità dell’oblio di dio”.
Per gentile concessione della Casa editrice SISMEL - Edizioni del Galluzzo