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Foires, marchés et marchands | Fiere, mercati e mercanti | Messen, Märkte und Händler

a cura di Andrea Bonoldi, Roberto Fantoni, Roberto Leggero

26 settembre 2025
Versione stampabile

Le Alpi si distinguono dai territori che le circondano per una diversa e variegata articolazione delle possibilità produttive, che si traduce in un intenso interscambio sia tra monte e piano che all’interno del contesto alpino stesso, e sono inoltre attraversate da importanti direttrici di traffico che connettono l’area mediterranea con l’Europa centro-settentrionale. Non stupisce pertanto che la ricerca storica abbia messo in luce, anche per il medioevo e l’età moderna, un complesso sistema fatto di percorsi, centri di scambio e operatori, il cui scopo era soddisfare i bisogni locali e supportare il commercio a distanza. I contributi qui raccolti mettono in luce alcuni aspetti di questa attività così importante, in passato come oggi, per le popolazioni alpine.

Andrea Bonoldi è professore ordinario presso il Dipartimento di Economia e Management dell'Università di Trento
Roberto Fantoni è presidente della commissione scientifica Pietro Calderini della Sezione di Varallo del Club Alpino Italiano
Roberto Leggero è docente e ricercatore nel Laboratorio di Storia delle Alpi (LabiSAlp) presso l'Accademia di architettura dell'USI a Mendrisio

Da Scambi e mercati nelle Alpi in età preindustriale: un'introduzione (pagg. 17-20)

In conclusione del suo «Geschichte der Alpen 1500–1900», un libro che occupa una posizione centrale nella recente storiografia alpina, Jon Mathieu cita Julie, ou La Nouvelle Héloïse, ou Lettres de deux amants habitants d’une petite ville au pied des Alpes di Jean-Jacques Rousseau come autorevole esempio di una visione per la quale le comunità alpine costituivano un’enclave immune dai guasti della civilizzazione. Nella lettera 23 del romanzo epistolare uscito per la prima volta nel 1761 si può infatti leggere: «Cependant l’argent est fort rare dans le Haut-Valais; mais c’est pour cela que les habitants sont à leur aise; car les denrées y sont abondantes sans aucun  débouché au-dehors, sans consommation de luxe au-dedans, et sans que le cultivateur montagnard, dont les travaux sont les plaisirs, devienne moins laborieux. Si jamais ils ont plus d’argent, ils seront infailliblement plus pauvres. Ils ont la sagesse de le sentir, il y a dans le pays des mines d’or qu’il n’est pas permis d’exploiter.»Al di là dell’utopia roussoviana incarnata nel montanaro dell’Alto Vallese, felice perché non corrotto da una civiltà qui rappresentata dai consumi voluttuari e dal denaro, il passo riproduce uno stereotipo del mondo alpino che a lungo è stato piuttosto diffuso, ovvero l’idea di un mondo cristallizzato in una sorta di arcadia serena e autosufficiente. A Rousseau tuttavia, che nel tardo agosto del 1744, nel suo viaggio da Venezia a Parigi era passato – a piedi – per il Sempione, non doveva certo essere sfuggita la vistosa costruzione che non un signore feudale, ma un imprenditore mercantile con attività diversificate aveva fatto edificare proprio allo sbocco settentrionale della strada del passo, a Brig. Si tratta del castello barocco di Kaspar Stockalper vom Thurm, la vicenda del quale viene trattata da MarieClaude Schöpfer in uno dei saggi di questo volume, dove si può vedere anche una foto dell’edificio: una evidente testimonianza materiale di come anche nell’Alto Vallese, nel cuore delle Alpi, non mancassero in età preindustriale attività improntate a una stringente logica di mercato.

Economie alpine in età preindustriale: Malthus, Smith o Polanyi? 

Per quanto la descrizione di Rousseau fosse evidentemente funzionale alla sua tesi sugli effetti negativi della civilizzazione per la condizione umana, essa coglieva pure una parte di verità, ovvero il fatto che almeno fino alla fine dell’età preindustriale in molte realtà dell’arco alpino l’orientamento all’autoconsumo continuasse a essere rilevante, sebbene ciò non implicasse quasi mai la totale assenza di scambi. In realtà, impostare la questione delle caratteristiche storiche dell’economia alpina, come a volte è stato fatto, sulla contrapposizione tra apertura e chiusura, tra economia naturale e monetaria, tra produzione per lo scambio o per l’autoconsumo, è un esercizio che rischia di essere in gran parte sterile. Innanzitutto perché ormai parte importante della storiografia ritiene che il rapporto tra popolazione, risorse e organizzazione economica nelle Alpi si presenti in forme variegate nel tempo e nello spazio, con dinamiche di trasformazione che seguono andamenti non sempre omogenei. Parlare dunque di economia alpina tout-court può essere fuorviante: occorre distinguere tra i diversi contesti – tra alte e basse valli, tra aree più o meno lontane dalle pianure e dalle città, sottoposte a sovranità diverse e caratterizzate da sistemi normativi differenti – e tra le congiunture che nel tempo hanno modificato vincoli e opportunità per le attività produttive e di scambio nelle Alpi. In secondo luogo perché all’interno di tali contesti le scelte economiche delle famiglie e delle comunità erano spesso caratterizzate da strategie che combinavano con flessibilità forme diverse di sfruttamento delle risorse e dei fattori di produzione locali sia per soddisfare direttamente i bisogni della popolazione, che per lo scambio con altre realtà. Il paradigma della Integrated Peasant Economy ad esempio, che per il mondo alpino rielabora in forma più raffinata e in chiave comparativa il noto concetto di pluriattività, mette bene in luce come per molte famiglie che vivevano in contesti rurali – alpini ma non solo – la sopravvivenza fosse spesso garantita dalla combinazione tra agricoltura e allevamento e redditi provenienti da attività artigianali, servizi di trasporto, emigrazioni stagionali etc., e dunque tra risorse localizzate e mercati di raggio più o meno ampio.

In ogni caso, nelle Alpi in età preindustriale l’affermazione e il mutamento di modelli di produzione e scambio continuano a essere necessariamente connessi all’interazione tra dinamiche demografiche e risorse. In riferimento alle prime, il dato fondamentale a cui occorre far riferimento è che tra il 1500 e il 1800 la popolazione alpina è passata grosso modo da 2,9 a 5,3 milioni di persone, per toccare attorno al 1900 i 7,9 milioni. Si pone dunque la questione di come sia stata sostenibile una crescita così rilevante, che fino al XVIII secolo non si è discostata troppo da quella delle vicine aree di pianura. Le condizioni morfologiche e climatiche che caratterizzano le Alpi, differenziandole nettamente rispetto alle zone circostanti, hanno in passato contribuito ad affermare una visione per alcuni versi strettamente malthusiana del rapporto tra popolazione alpina e risorse, per la quale la crescita demografica era inesorabilmente vincolata dai limiti ambientali alla produzione di beni primari. Riferendosi esplicitamente al caso alpino, Malthus stesso aveva rilevato, portando a esempio il paese svizzero di Leysin (Vaud), come in contesti caratterizzati da un’economia pastorale si fosse affermato un equilibrio sostanzialmente statico tra popolazione e risorse fondato su freni preventivi, in primo luogo su limiti a nuzialità e natalità. Tuttavia, l’economista inglese notava anche che tale condizione poteva cambiare in presenza di emigrazione o attività manifatturiere, come in effetti era accaduto in alcune realtà svizzere nel corso del Settecento (anche se, a suo dire, a discapito delle condizioni di salute e dell’aspettativa di vita).

Per Adam Smith invece, com’è noto, la crescita della popolazione rappresenta un fattore che induce a intensificare gli scambi, spingendo verso una maggiore divisione del lavoro e, di conseguenza, a un incremento della produttività e del reddito. Un aspetto questo del pensiero di Smith considerato anche da Ester Boserup nella sua concezione di una crescita in cui l’aumento della popolazione costituisce un incentivo all’innovazione. Gli scambi dunque, insieme alle innovazioni, interagiscono positivamente con la crescita demografica, laddove per il caso alpino diventa fondamentale considerare anche la dinamica della popolazione nelle aree circostanti, che giocano un ruolo cruciale nel definire le possibilità di interazione economica delle comunità della montagna.

Ecco dunque che diventa importante cercare di capire quali fossero i presupposti, le motivazioni e le modalità specifiche con cui gli scambi si sono manifestati storicamente. Indagare modi, tempi, luoghi e protagonisti degli scambi in area alpina non significa infatti postulare l’esistenza di un’economia di mercato intesa nella sua accezione corrente nelle scienze economiche, ovvero caratterizzata da elevati livelli di specializzazione produttiva e di divisione del lavoro, da circuiti di scambio per le merci e i fattori di produzione fluidi, ampi e integrati, e da attori che agiscono in prevalenza massimizzando l’utilità individuale. L’annoso dibattito attorno alla questione della presenza o meno di una logica di mercato intesa in senso moderno nelle economie tradizionali, che almeno a partire dall’uscita nel 1944 di The Great Transformation di Polanyi continua a riemergere, ha più a che fare con i fini dell’azione economica stessa – consumo, accumulazione, potere, etc. –, che non con l’esistenza o meno degli scambi in quanto tali. Delle suggestioni polanyiane occorre tenere presente almeno il concetto di radicamento (embeddedness) dell’azione economica nel contesto sociale e culturale dei gruppi umani, proprio come utile monito per evitare anche nello studio delle realtà storiche alpine i rischi connessi alla trasposizione acritica e sostanzialmente anacronistica di categorie interpretative proprie dell’analisi economica contemporanea. Per Polanyi infatti nelle società tradizionali l’allocazione delle risorse seguiva prevalentemente logiche come quelle della reciprocità, della redistribuzione e dell’economia domestica (householding), che costituiscono chiavi di lettura rilevanti per comprendere le scelte degli attori economici. Ciò in particolare in contesti caratterizzati, oltre che da norme sociali condivise non necessariamente in linea con le logiche di mercato intese in senso contemporaneo, da scarsità e mercati altamente imperfetti, come nel caso appunto di molte realtà alpine. Senza indugiare in un astratto dualismo tra società di mercato e non di mercato, si può tuttavia rilevare come in molte comunità le attività produttive e di scambio fossero condizionate da una combinazione variabile di norme e incentivi in cui motivazioni economiche ed extraeconomiche, dimensione locale e sovralocale, autoproduzione e scambio si intrecciavano strettamente. E come l’interazione con realtà diverse che aveva luogo anche attraverso gli scambi finisse inevitabilmente per modificare il contesto sociale e culturale in cui era radicata (appunto embedded) l’attività economica.

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