Le Olimpiadi moderne sono spesso considerate un avvenimento puramente sportivo, ma in realtà la politica internazionale ne ha definito storia e successo sin dal loro esordio, voluto da de Coubertin per riportare in auge gli antichi Giochi olimpici. In questa nuova edizione il libro mostra come ogni Olimpiade, da Atene 1896 ai controversi Giochi di Parigi 2024, sia il riflesso della costante tensione tra vicissitudini nazionali e internazionali di un mondo in continuo cambiamento, in cui sfide, problemi e valori sono sempre nuovi. Tra record, medaglie, boicottaggi, propaganda, doping, questioni di genere e marketing, ognuna di esse ci aiuta a comprendere gli ultimi 130 anni della storia globale.
Umberto Tulli è professore associato presso il Dipartimento di Lettere e Filosofia dell'Università di Trento.
Dal capitolo 4. Le Olimpiadi della globalizzazione (pagg. 102-104)
Nel 1992, il mondo era oramai cambiato. Il Muro di Berlino era crollato, l’Urss era implosa, l’Europa dell’Est si era avviata verso una stabilizzazione democratica, le due Germanie si erano riunite in un unico Stato. Le reazioni internazionali per la fine pacifica della Guerra fredda oscillarono tra gli entusiasmi e i trionfalismi di chi riteneva che l’Occidente avesse vinto e le posizioni più caute di chi non nascondeva i propri dubbi e i propri timori per un sistema internazionale dal futuro incerto e potenzialmente instabile. In molti auspicarono che l’architettura delle relazioni internazionali che era stata tracciata dopo la Seconda guerra mondiale – un sistema che si riteneva essere stato paralizzato dallo scontro bipolare – potesse finalmente funzionare. Si trattava, disse il nuovo presidente americano George Bush, di realizzare un nuovo ordine mondiale, basato sul diritto internazionale, sull’Onu, sul multilateralismo, sull’estensione della democrazia e dell’economia di mercato. I banchi di prova di questo nuovo ordine internazionale furono la transizione alla democrazia dell’Europa dell’Est e dell’Urss, la prima Guerra del Golfo e il conflitto etnico che si aprì nell’ex Iugoslavia a partire dal 1991, quando Slovenia e Croazia dichiararono la propria indipendenza e la Serbia dichiarò loro guerra.
Questi nuovi scenari condizionarono anche la politica olimpica. Da una parte, molti commentatori ed esponenti del Cio suggerirono che le Olimpiadi – ritratte come un forum per sviluppare relazioni pacifiche – potevano contribuire al rafforzamento del multilateralismo, del dialogo e della cooperazione internazionale. Per questo, nei mesi che precedettero l’apertura dei Giochi di Barcellona 1992, il Cio finanziò un programma di assistenza umanitaria per la popolazione della Bosnia-Erzegovina, vittima della guerra nella ex Iugoslavia. Dato il successo di questo programma, il 21 luglio 1992, il Cio e 184 comitati olimpici nazionali proposero all’Onu di rispolverare la celebre usanza della Grecia classica e istituire una tregua olimpica. Il progetto venne poi approvato dall’Assemblea delle Nazioni Unite il 25 ottobre 1993: esso faceva esplicito riferimento alla ekecheiria greca (letteralmente: “mani ferme”) e chiedeva che, dal settimo giorno precedente all’apertura dei Giochi fino al settimo successivo alla loro chiusura, fosse osservata una tregua olimpica con l’interruzione di ogni conflitto in corso.
Dall’altra parte, la geografia olimpica doveva adeguarsi al nuovo scenario internazionale: il Cio avrebbe dovuto riconoscere in tempi brevi i comitati olimpici nazionali dei nuovi Stati e garantire la loro presenza alle Olimpiadi di Barcellona. Su questo terreno, l’organizzazione olimpica prese alcune, importanti iniziative, permettendo agli atleti di Croazia e Slovenia di fare il proprio debutto olimpico nel 1992. Così accadde anche per gli atleti di Lettonia, Estonia e Lituania – le tre repubbliche baltiche che, per prime, avevano dichiarato la propria indipendenza da Mosca. Gli altri Stati ex sovietici – ora riuniti nella Comunità degli Stati indipendenti (Csi) – furono ammessi a Barcellona con un unico team che gareggiò con i colori e la bandiera del Cio. Ai tedeschi, che nel 1990 si erano riuniti in un unico Stato e avevano creato un unico comitato olimpico nazionale, fu garantita la possibilità di presentare gli atleti in un’unica selezione. Così accadde anche per gli atleti provenienti dalla Cecoslovacchia che, alla fine dell’anno, si sarebbero divisi in due Stati, la Repubblica Ceca e la Slovacchia. Il principale problema per il Cio riguardava la partecipazione degli atleti della Serbia, soggetta a sanzioni Onu per la guerra e verso cui iniziavano a pesare le prime denunce di stragi e genocidi. Molti membri dell’organizzazione olimpica proposero la sospensione degli atleti serbi sino alla fine delle ostilità. A prevalere fu un’altra proposta: a Barcellona, gli atleti serbi poterono partecipare a titolo individuale, gareggiando con i colori del Cio. Grazie a questi processi, le nazioni presenti a Barcellona furono 172, un nuovo record di partecipazione reso possibile non solo dalla fine del comunismo in Europa, ma anche dalla completa riammissione di Cuba, che rientrò nella famiglia olimpica dopo aver partecipato ai boicottaggi del 1984 e del 1988, e del Sudafrica, dove nel 1990 era crollato il regime dell’apartheid e il nuovo comitato olimpico nazionale era riuscito a preparare una selezione desegregata composta da 96 atleti.
Ai Giochi del 1992 ci fu spazio anche per un’altra questione politica, quella che riguardava i rapporti tra Madrid e Barcellona, tra il potere centrale della Spagna e la regione autonoma della Catalogna. Sin dall’annuncio di Barcellona come sede delle Olimpiadi, erano emerse numerose tensioni tra le forze autonomiste e quelle centrali. Il governo centrale vedeva la questione in termini di prestigio nazionale: i Giochi avrebbero mostrato i progressi fatti dalla Spagna in meno di venti anni di vita democratica. I nazionalisti catalani, invece, intendevano mostrare le peculiarità della loro comunità autonoma. L’unica area di convergenza riguardava le aspettative di ritorno economico, ma anche qui esistevano differenze su come gestire il patrimonio olimpico: per il governo centrale, questo doveva stimolare la crescita di aree economicamente più arretrate, per le autorità locali serviva a ripagare gli abitanti della Catalogna dell’elevata tassazione. Il presidente del comitato organizzatore chiese addirittura che fossero visibili i simboli della tradizione (e quindi del nazionalismo) catalano e che gli atleti della regione autonoma potessero gareggiare con una divisa diversa dagli altri atleti spagnoli o, in alternativa, che i catalani che fossero saliti sul podio potessero veder sventolare anche la bandiera della propria regione. Fallito un accordo su questi aspetti, le Olimpiadi di Barcellona furono accompagnate da azioni di protesta simbolica da parte dei gruppi autonomisti e dal tentativo del comitato organizzatore di riferirsi direttamente alla comunità internazionale e alla Comunità economica europea. Parlare all’Europa unita significava celebrare l’ingresso della Spagna nelle istituzioni comunitarie (avvenuto ufficialmente nel 1986), ma significava anche scavalcare la dimensione nazionale e, quindi, il potere centrale spagnolo. Ciò, però, non ridusse l’impegno del governo di Madrid, che finanziò un radicale rinnovamento della città – soprattutto nell’ex area industriale del Parc de Mar, e sulla collina Montjuïc – e garantì la presenza di 10.000 poliziotti per prevenire eventuali attentati dell’Eta e azioni di terrorismo internazionale legate alla guerra in Iugoslavia.
Da un punto di vista prettamente sportivo, a Barcellona il Cio seguì le due direttrici che aveva testato a Seul. La prima era l’imponente offensiva contro il doping: non solo furono eseguiti 1.840 test (circa il 30% in più rispetto a Seul), che coinvolsero i primi quattro classificati di ogni gara, più due atleti estratti a sorte, ma fu lanciata una vasta campagna pubblica contro il ricorso agli steroidi anabolizzanti perché – si riconobbe ufficialmente – il doping era un problema culturale ed era perciò opportuno sensibilizzare il pubblico internazionale contro tale pratica. Gli esiti dei controlli furono in larga misura confortanti, con solo cinque casi di accertata positività. La seconda linea guida, invece, riguardava l’abbandono definitivo di ogni pretesa di dilettantismo nel mondo olimpico. Nonostante l’opposizione dei membri della Cina e dei comitati olimpici riuniti nella Csi – che speravano di veder competere i propri campioni semiprofessionisti contro i dilettanti degli altri paesi – la spinta riformista non poteva più essere bloccata. Non solo perché era oramai palese che, grazie a formule di dilettantismo di Stato o a borse di studio universitarie, il dilettantismo era di fatto scomparso; ma anche perché coinvolgere gli atleti professionisti significava aumentare l’interesse del pubblico internazionale verso le Olimpiadi e, potenzialmente, moltiplicare le sponsorizzazioni e i profitti. A spazzare via le ultime remore arrivò la decisione del Cio di reintrodurre il tennis nel programma olimpico. Ad avvantaggiarsi dell’apertura ai professionisti furono soprattutto gli americani, che poterono presentare i loro migliori tennisti (Jim Courier, Pete Sampras e Michael Chang per gli uomini, Jennifer Capriati e Mary Joe Fernández per le donne) e, per la prima volta, la nazionale professionistica di basket, composta dai giocatori che militavano nella massima serie, l’Nba. Il dream team, guidato da Magic Johnson e Michael Jordan, era talmente forte che vinse tutte le gare con uno scarto minimo di 40 punti.
Per gentile concessione della Casa editrice Carocci




