La carne coltivata è tra gli argomenti che più polarizzano il discorso pubblico, con i pareri che si dividono tra chi teme le derive di un’alimentazione “artificiale” e chi invece vede i vantaggi del progresso scientifico. Il dibattito è stato rilanciato di recente da un editoriale apparso sulle pagine di Nature Biotechnology. Nell’editoriale, sottoscritto da un gruppo di ricercatori e ricercatrici, si invoca una nuova "Asilomar", vale a dire una conferenza internazionale in cui mettere a confronto i soggetti – scientifici, sociali, economici e politici – coinvolti a vario titolo su questo tema. Tra i firmatari, Stefano Biressi e Luciano Conti, associati al Dipartimento di Biologia cellulare, computazionale e integrata dell’Università di Trento, ma anche collaboratori della startup Bruno Cell, attiva sul fronte della carne colturale.
Abbiamo posto a Stefano Biressi e Luciano Conti alcune domande per capire gli obiettivi di questa nuova, invocata Asilomar.
Facciamo chiarezza: qual è la differenza tra carne coltivata e carne sintetica?
«La differenza principale riguarda il modo in cui vengono generate, gli elementi di partenza e cosa contengono. La carne coltivata, chiamata anche "carne cell-based", viene prodotta a partire da cellule prelevate da un animale vivo. Queste cellule vengono poi fatte crescere in un bioreattore fino a diventare pezzetti di carne. Per coltivare le cellule possono essere usate sostanze di origine animale, come il siero fetale bovino, ma la ricerca va nella direzione di farne a meno.
La carne sintetica è fatta invece con ingredienti vegetali, cercando di creare un prodotto che per consistenza, sapore e aspetto sia simile alla carne. In questo caso, si parte da proteine provenienti da legumi, cereali o altre fonti vegetali. La carne sintetica può anche contenere oli vegetali, amido, aromi e condimenti per renderla più simile alla carne animale».
Quali sono i vantaggi della carne coltivata rispetto a quella animale?
«I vantaggi potenziali sono tanti: la carne coltivata è più etica, perché per produrla non serve macellare animali; riduce il rischio di malattie zoonotiche come l'influenza aviaria o la salmonella; è più sostenibile, perché richiede meno risorse rispetto all'allevamento tradizionale; contrasta la resistenza agli antibiotici; aiuta a combattere la fame nel mondo; favorisce l'innovazione e la diversificazione dell'industria alimentare; potenzialmente, permette di personalizzare le proprietà nutritive, ad esempio producendo carne magra o con le caratteristiche nutrizionali desiderate».
La commercializzazione della carne coltivata è vicina?
«Attualmente, la carne coltivata è per lo più in fase di sviluppo e non è ancora ampiamente disponibile sul mercato. Tuttavia, negli ultimi anni ci sono stati progressi significativi nella ricerca e nello sviluppo. Alcune aziende hanno già condotto test di degustazione e stanno pianificando la produzione su scala ridotta. Tuttavia, ci sono ancora sfide da affrontare, come la riduzione dei costi e il miglioramento della scala di produzione, per non parlare delle questioni normative o della percezione da parte dei consumatori.
Fondamentale è il processo di approvazione da parte degli enti deputati alla valutazione della sicurezza. A Singapore è stato completato il 2 dicembre 2020 per un prodotto cell-based con cellule di pollo; qualche giorno fa, è successo lo stesso negli Stati Uniti per alcuni prodotti simili».
Nell’editoriale scientifico pubblicato su Nature Biotechnology invocate una nuova "Asilomar", un forum in cui la comunità scientifica, ma anche i rappresentanti dell'industria e della società civile possano confrontarsi su questi temi. Qual è il senso di un’iniziativa di questo tipo?
«Noi e gli altri studiosi che hanno firmato l’editoriale crediamo sia necessario fare chiarezza su dove si vuole andare e cosa si vuole ottenere. Per farlo, è indispensabile coinvolgere nel dibattito tutti i soggetti interessati, a livello sociale, politico ed economico. Solo in questo modo sarà possibile costruire un consenso condiviso e generare un sentimento di sicurezza nell’opinione pubblica.
L’editoriale su Nature ha formalizzato la richiesta per un’iniziativa di questo tipo. Il contesto deve naturalmente essere internazionale, non solo locale, perché la questione si pone a livello globale».
Cosa succede negli altri paesi, in Europa e nel resto del mondo? Qual è il quadro normativo internazionale?
«Per quanto riguarda l’Europa, il quadro normativo è lo stesso per tutti i paesi dell’Ue. C’è un ente che si occupa della sicurezza alimentare, l’Efsa, a cui competono le valutazioni sui nuovi prodotti. Una volta che un prodotto supera positivamente il suo esame, questo può essere valutato dalla Commissione Europea e dai Paesi Membri per l’autorizzazione alla commercializzazione in tutta Europa. Al momento, non ci sono prodotti di carne coltivata inseriti nel processo di valutazione, ma presto potrebbero esserci. A livello europeo ci sono paesi che stanno investendo molto su questo tipo di prodotti, perché ne vedono i grandi vantaggi. Ad esempio, l’Olanda, ma anche la Spagna e la Germania. Allargando lo sguardo, anche Israele sta investendo molto su queste ricerche. In paesi come Singapore e Israele è considerato strategico trovare fonti alternative di approvvigionamento della carne».
Parliamo di regolamentazione: esiste un punto di equilibrio tra il progresso nella ricerca e la necessità di confini etici e giuridici?
«L’obiettivo di un congresso di questo tipo è proprio quello di definire questi confini. Non vorremmo anticipare opinioni che invece dovrebbero nascere proprio in quel contesto. Ricordiamo però che i paletti non sono "per sempre", ma sono dinamici e vanno ridiscussi periodicamente. È importante definire dei limiti, ma con la consapevolezza che non devono essere qualcosa di cristallizzato».