Tracce ne sono state trovate nella carne, nel pesce, nella frutta, nella verdura, nel sale e nella birra. Ma anche nella placenta, nelle feci dei neonati, nelle cellule delle ossa. Parliamo di micro e nano plastiche, particelle microscopiche che derivano dalla degradazione di materiali plastici. Anche l’agricoltura, seppur in modo minore, ne è coinvolta. Materiali plastici sono utilizzati in varie pratiche agricole, come nella pacciamatura e nei tunnel ma anche con l’uso di acque di irrigazione contaminate. E, se non correttamente smaltiti possono contaminare il suolo, influenzare la sua struttura, la crescita delle piante, fino a entrare nella catena alimentare. Questo è anche l’ambito di interesse di Ilaria Pertot, docente di Patologia vegetale al Centro Agricoltura, Alimenti, Ambiente – C3A dell’Università di Trento. Pertot tiene un insegnamento, nell’ambito del corso di laurea magistrale Agri Food Innovation Management, dedicato alla sicurezza alimentare e ai principali contaminati nella produzione agricola, tra cui, proprio le microplastiche.
Professoressa Pertot, come arrivano le microplastiche nel cibo?
«Le microplastiche entrano nell’ambiente principalmente in due modi: il primo, ormai marginale, è l’uso intenzionale, come nei vecchi prodotti esfolianti per la pelle che contenevano microsfere plastiche. Il secondo, più rilevante oggi, è la degradazione della plastica già presente nell’ambiente. Anche l’agricoltura, seppur minore dà il suo contributo: teli per la pacciamatura, coperture per serre, imballaggi. Se non correttamente smaltiti questi materiali si degradano con il sole e il vento, generando micro e nanoplastiche che contaminano il suolo e, di conseguenza, le colture e il cibo».
Di che materiali si tratta?
«Le microplastiche sono minuscoli frammenti, che misurano da 0,1 micron a cinque millimetri, mentre le nanoplastiche sono ancora più piccole, praticamente invisibili a occhio nudo. I polimeri più comuni sono il polipropilene, usato nel packaging alimentare, il polietilene tereftalato chiamato anche Pet e utilizzato per realizzazione bottiglie e il polivinilcloruro, ossia il PVC ampiamente utilizzato in settori come l’edilizia. Ciascuno ha le sue caratteristiche, ma tutti hanno in comune la difficoltà di degradarsi completamente in natura. Anche il settore tessile contribuisce: durante i lavaggi, le fibre sintetiche si staccano non vengono intercettate nei depuratori, e quindi finiscono nei fiumi e infine nel mare».
Quanto ne sappiamo e quanto ci riguarda?
«La ricerca è in ritardo rispetto alla portata del problema. Non abbiamo ancora strumenti analitici rapidi e precisi per misurare quante microplastiche ci siano effettivamente nei cibi. Quello che sappiamo è che le ritroviamo già in alimenti di consumo quotidiano: crostacei, pesci, birra, sale marino. E anche nei tessuti umani – cuore, placenta, perfino nelle feci dei neonati. Gli studi, ancora in fase iniziale, suggeriscono che le microplastiche non sono completamente inerti nel corpo umano, ma potrebbero essere coinvolte nello stress ossidativo, in processi infiammatori o nell’interferenza con i processi funzionali nei tessuti, come ad esempio nel metabolismo osseo».
Cosa sta facendo la ricerca scientifica per cercare soluzioni a un problema tanto complesso?
«Oltre alla mappatura del fenomeno, la ricerca si sta orientando verso lo sviluppo di materiali alternativi. Per esempio, si stanno sperimentando teli agricoli biodegradabili e materiali compostabili, oppure l’utilizzo di fibre naturali riciclate come sostitutivi della plastica tradizionale. Il problema, però, è duplice: costi elevati e prestazioni inferiori, soprattutto in termini di durabilità e impermeabilità all’acqua. La plastica è impermeabile e costa poco: è difficile rinunciarci senza soluzioni tecnologiche valide».
Come si articola la didattica su questo tema al C3A?
«Abbiamo un insegnamento che si articola in tre moduli: sicurezza alimentare (con focus anche su pesticidi, microplastiche e micotossine), sicurezza dei mangimi e benessere animale. Lavoriamo anche con laboratori pratici e casi studio, analizzando campioni e contaminazioni reali. Un altro ambito promettente è quello della didattica basata su sfide reali, come nel progetto sul Challenge Based Learning promosso dall’Università di Trento nell’ambito di ECIU e in particolare e la relativa comunità di pratica coordinata assieme ad Alessandra Scroccaro e Stefano Turrini. Faccio un esempio in base a una recente esperienza. All’Arsenale della Pace di Torino, in tre giorni, ragazze e ragazzi di età diverse hanno analizzato un problema emergente e grave come quello della fast fashion – che genera enormi quantità di rifiuti tessili - individuando soluzioni concrete. È un metodo potente, anche per la terza missione dell’università, quella del contatto con la società. Vorremmo a breve applicarlo anche al tema delle microplastiche nella catena alimentare».
Il comportamento di consumatori e consumatrici può fare la differenza?
«Dobbiamo prestare soprattutto attenzione a come ci liberiamo dei rifiuti in plastica, che non devono essere abbandonati nell’ambiente. In secondo luogo serve ridurre il consumo di plastica monouso e l’acquisto di vestiti sintetici. Serve più consapevolezza, più ricerca e una maggiore responsabilità collettiva tra chi produce, chi consuma e i decisori politici. Perché ogni particella di plastica che entra nel terreno o nel mare, ci tornerà indietro. Letteralmente, nel piatto».




