Come si fa ad attirare più studentesse e studenti nei corsi universitari? Se ne è parlato nei giorni scorsi durante l’ultima edizione dell’International Staff week, opportunità di scambio di buone pratiche e di formazione per il personale di staff degli atenei europei ed extra europei partner di UniTrento, promossa dalla Divisione Relazioni internazionali dell’Ateneo nell’ambito del programma Erasmus+. In questa edizione dedicata allo ‘Student Engagement’, UniTrentoMag ha intervistato Ryan Wakamiya, Learner engagement coordinator e Education coordinator per Eciu University all’Università di Twente per parlare di studenti, di motivazione, di corsi da ripensare. E anche un po’ di UniTrento.
Diretto, aperto, pieno di entusiasmo, Ryan Wakamiya, Lei sembra avere una speciale connessione con gli studenti e i professori che incontra nel suo lavoro. Come sono e cosa vogliono, secondo Lei, gli studenti e le studentesse che frequentano oggi le nostre università?
«Vogliono avere un impatto nella società, giocare un ruolo attivo, trovare il proprio posto. Questo mi dicono gli studenti quando chiedo quali siano i loro desideri rispetto all’esperienza universitaria. Vogliono fare esperienze, soprattutto hands on, mettersi in gioco, avere una voce ed essere ascoltati sulle questioni che contano davvero per loro. Come il cambiamento climatico, l’impatto della transizione tecnologica, i diritti e le opportunità, specialmente per le generazioni future.
Pensiamo ad esempio alle nuove tecnologie: vanno così veloce che è inevitabile avere spesso la sensazione di rimanere un passo indietro. Anche nella formazione. Questo si unisce alla pressione che la nostra società mette sulle loro spalle a crescere continuamente e a produrre di continuo nuovi risultati. Questa urgenza cozza con il loro desiderio di prendersi il tempo per maturare le proprie scelte. La pazienza che ci vuole anche a sentire di avere una voce e a usarla per essere ascoltati. E poi andare oltre: vedere le proprie idee concretizzarsi in qualcosa di tangibile e di utile. Il più delle volte questo non accade perché l’impostazione teorica e accademica di tanti corsi universitari è ancora molto tradizionale.
Ma quando si riesce a rompere lo schema, i risultati sono invece evidenti e incoraggianti. Funziona molto bene, ad esempio, la sperimentazione che viene fatta in alcuni corsi o proposte di formazione, come quelle che la rete degli atenei ECIU propone. Il punto di forza è che privilegiano fin dall’inizio un approccio molto stretto con le aziende e con gli stakeholders esterni che offrono agli studenti da subito la possibilità di incidere. E magari a volte anche di essere assunti».
Parliamo di studentesse e studenti motivati, dalle grandi aspettative, pronti a cambiare il mondo. Ma sono tutti davvero così?
«È un punto interessante. Molti studenti, di fatto, non sono leaders, non sono visionari. Tendono ad accontentarsi, a fare il compito assegnato, senza andare oltre nell’approfondimento, nel ragionamento. Non vogliono cambiare il mondo: a loro basta avere un titolo. Dall’altra parte invece ci sono quelli che nei modelli di innovazione vengono definiti gli ‘early adopters’, i pionieri. Quelli che si lasciano coinvolgere più facilmente nelle nostre iniziative.
Penso che come atenei non dovremmo limitarci a raggiungere questi ultimi, ma invece andare nella direzione di aumentare il numero di persone capaci di innovazione, perché ne abbiamo bisogno nelle nostre società. Servono programmi capaci di stimolare tutti verso un cambio di atteggiamento e di approccio. È una transizione lenta e a tratti faticosa che si gioca attorno a domande che vale la pena di porre in modo quasi ossessivo: «Perché studiamo questo? Perché facciamo questa cosa in questo modo? A cosa ci serve?». Oppure più semplicemente: «Perché vai all’università?». La risposta è tutt’altro che facile da dare. Eppure chiedersi ‘perché’ è la chiave di tutto: invita ad approfondire e a svelare le ragioni che stanno dietro alle nostre scelte. La consapevolezza di quello che si fa e a cosa serve viene alimentata ogni volta che, durante gli studi universitari, si ha la possibilità di toccare con mano la realtà e ci si sforza di comprendere il punto di vista delle altre persone. E questo serve anche in vista della scelta di cosa fare dopo gli studi».
In che senso?
«La maggior parte degli studenti non ha le idee chiare su cosa farà dopo. O magari, guardando indietro agli anni degli studi si accorge che sta facendo un lavoro completamente diverso. Maturare una consapevolezza su cosa si stia studiando serve anche a questo. Quanti docenti, ad esempio, si soffermano sulla domanda “a cosa serve questo corso”, oppure “perché è utile, in generale, sapere questa cosa?” Eppure è importante per gli studenti, perché permette di capire a cosa applicare le competenze maturate e a sviluppare un’idea originale su come utilizzarle una volta fuori dall’università. Una buona parte dei lavori di domani, del resto, sono ancora tutti da disegnare».
Ma da dove partire? Come aiutare studentesse e studenti a guardare al proprio percorso universitario con queste ‘lenti’ nuove?
«Nelle scienze dell’educazione si sente parlare spesso di ‘scaffolding’. È un processo di insegnamento durante il quale chi insegna fa un passo indietro e lascia che sia chi impara a risolvere il problema, dando supporto solo quando serve davvero. È un modo per eliminare gradualmente il livello di assistenza e favorire l’autonomia nell’utilizzo delle competenze. Funziona anche come strategia per favorire scelte consapevoli. In un mare di opportunità spesso è facile perdersi, andare in confusione. Allora conviene inizialmente restringere il campo, consolidare alcuni punti fermi, per poi ampliare gradualmente, assecondando le esigenze personali che emergono con lo sviluppo della propria consapevolezza.
Su questo modello di tutoraggio, molto basato sull’empatia, si è costruito quello che nella formazione chiamiamo ‘challenge based approach’. Si aiutano gli studenti ad apprendere proponendo sfide concrete che migliorano la vita delle persone o aiutano lo sviluppo delle aziende. Da subito.
Ma anche i programmi di mobilità all’estero sono da sempre una palestra di innovazione. Andare all’estero ti aiuta a cambiare, a crescere, a formarti. Non tutti però hanno le risorse, il tempo o più semplicemente il coraggio di partire e magari stare via a lungo. Ecco che allora per certi studenti funzionano molto bene i programmi di mobilità breve tra atenei. O le mobilità a progetto. Ad esempio, proprio, le challenges Eciu. Meno stress, più divertimento. Una specie di antipasto per progetti più impegnativi».
Divertirsi a studiare?
«Sì, perché le leve per generare motivazione possono essere molte e diverse: la voglia di cambiare il mondo, quella di aiutare le persone o anche quella di emergere o fare carriera. Ma anche, almeno all’inizio, di divertirsi, andare all’avventura, imparare una lingua nuova, conoscere altre persone e coltivare la propria rete sociale. Teniamo presente che il passo più difficile è sempre il primo.
Per questo, nel disegnare i curricula e i corsi universitari è utile tenere conto delle ragioni che stimolano la motivazione intrinseca nelle persone. La prima sono le competenze: la sensazione che posso fare davvero qualcosa. La seconda è la vicinanza: come questa cosa che sto apprendendo si relaziona con me, con le mie aspettative o con quelle della società, con i miei progetti. E poi l'ultima, l'autonomia: sentirsi capaci di fare da sé e percepire la sensazione di potere, aiuta a imparare meglio».
Ridisegnare i corsi universitari e il modo in cui si insegna però non è facile…
«No infatti. Richiede tempo, energie, molte risorse. La sfida è quella di adattare, lavorare sulla forma, senza sacrificare l’aspetto dei contenuti. E poi non basta il manifesto degli studi: è necessario occuparsi dell’intero arco della formazione, quella che chiamiamo la ‘user journey’, l’esperienza che studentesse e studenti possono fare durante tutta la loro permanenza all’università. Da prima ancora che si iscrivano, quando sono alle prese con la scelta dei loro studi, fino a tutta l’esperienza universitaria, per arrivare poi al momento della scelta di cosa fare dopo. Se rimanere e proseguire ancora con l’università per studiare o fare ricerca o indirizzarsi invece verso le prime esperienze lavorative. E poi magari, anni dopo, quando da lavoratori tornano sempre più spesso a studiare per aggiornarsi».
Guardando l’Università di Trento con occhi esterni, su quali aspetti dovrebbe puntare l’ateneo per attrarre studenti, anche dall’estero?
«“Piccolo è bello”, direi. Una città come la vostra che ha un patrimonio naturalistico incredibile, piena di storia, tranquilla e sicura. E un’università tanto innovativa, dinamica, con belle strutture e ottimi servizi, con un’ampia offerta di programmi di mobilità internazionale molto curati… Credo sia importante, come per tutte le altre università, identificare bene il proprio segmento target di studenti da attrarre. Che di sicuro non è quello che cerca la grande città, piuttosto quello che predilige la sperimentazione o le relazioni o la qualità della vita o andare all’estero e mettersi in gioco davvero. Per elaborare una strategia come ateneo serve capire il proprio potenziale e anche quelle che possono sembrare le proprie debolezze. E magari farle diventare un punto di forza».
Why go to university? What is a university education for?
Ryan Wakamiya, ECIU University Learner Engagement Coordinator and Education Coordinator on how to engage students
How can university courses become more appealing to students? This was among the topics discussed days ago during the last edition of the International Staff Week, an opportunity for training and the exchange of good practices among university staff organized by the International Relations Division of UniTrento as part of the Erasmus+ programme. Since the theme of this edition is Student engagement, UniTrentoMag interviewed Ryan Wakamiya, Learner engagement coordinator and Education coordinator for ECIU University at the University of Twente to talk about students, motivation, courses that must be reviewed, and a little bit about UniTrento.
Sincere, straightforward and enthusiastic, Ryan Wakamiya, you seem to have a special connection with the students and professors you meet in your work. What do you think of students attending university today, how are they like and what do they want?
“They want to make an impact, play an active role, find their place. This is what students tell me when I ask them about their expectations regarding the university experience. Most of all, they want to participate in hands-on activities, get involved, voice their opinions and be heard on the issues that really matter to them. Such as climate change, the impact of the technological transition, rights and opportunities especially for future generations.
Take new technologies, for example: they evolve so quickly that it is inevitable to often have the feeling of lagging behind. This is true for education too. When you combine this with the pressure that our society puts on young students to continuously grow and produce new results, you see that this pressure clashes with their desire to have the time to think about their choices, to learn that they have a voice and can use it to be heard. But there is more than that: they want to see their ideas materialize and become real and useful. This however often does not happen because many university courses still use a very traditional approach in theory and academic practice.
But when we manage to change the approach, the results are visible and encouraging. For example, the pilot projects that are offered for some courses or training activities, such as those of the ECIU network, work very well. The strength of these projects is that they are designed from the outset to facilitate the relationship with companies and external stakeholders, that give students the opportunity to express themselves and sometimes, to be hired”.
We are talking about motivated students, with high expectations, who want to change the world. But is everyone really like that?
“That's an interesting point. Many students, in fact, are not leaders or visionaries. They tend to settle, to do their homework, they don't delve deep into the subjects they are studying. They don't want to change the world: they just want to earn a qualification. Their opposites are those who are called the ‘early adopters’, the pioneers, in innovation models. They are more easily involved in our initiatives.
In my opinion, universities should not limit themselves to reaching these students, but instead try to increase the number of people capable of innovation, because that is what our societies need. We need programmes that stimulate a change of attitude and approach. It is a slow and sometimes tiring process that involves questions that are worth asking over and over again: "Why are we studying this? Why are we doing this in this way? What it is for?" Or more simply: "Why are you going to university?". The answer is anything but easy. Yet asking ‘why’ is the key to everything: it is an invitation to know more and to find the reasons behind our choices. The motivation for what we do and what that is good for in university studies becomes stronger when there is a connection with the real world and we can understand the point of view of other people. And this becomes useful when you have to choose what to do after graduation”.
What do you mean?
“Most students don't have a clear idea of what they will do next. Sometimes, when you look back at the years of your studies, you realize that you are doing a completely different job. Being aware of what you are studying also serves this purpose. How many professors, for example, ask themselves ‘what is this course for’, or ‘why is it useful, in general, to know this'? And yet these questions are important for students, because they allow them to understand how to apply the skills they have learned and to develop a personal way to use them once they are out of university. A significant part of tomorrow's jobs, after all, are still unknown”.
Where should change start from? How to help students look at their university journey from this new perspective?
“In the education sciences we often refer to the concept of ‘scaffolding’. It is a teaching technique in which instructors step back and let learners solve a problem, giving support only when it is really needed. It is a way to gradually remove teacher support and promote autonomy in the use of skills. It also works as a strategy to encourage students to make responsible choices. It's easy to get lost in a sea of opportunities. In this case, it is advisable to initially narrow down the opportunities, focus on some points, and then gradually expand them again based on the personal needs that emerge as the level of self-awareness increases over time.
This model of tutoring, which is largely based on empathy, provided the foundations for what we call the ‘challenge based approach’ in training. Students are offered challenges from the real world, and when they solve them they improve people's lives or help companies develop. Right from the start.
Mobility programmes too have always been a training ground for innovation. Going abroad helps you change, grow, learn. Not everyone has the resources, the time or more simply the courage to leave and maybe stay away for a long time. That is why we now also have short-term mobility programmes between universities. Or project-based mobility programmes. ECIU challenges for example fall in this category. Less stress, more fun. A sort of first step before embarking on more demanding projects”.
Studying and having fun?
“Yes, because motivation can be triggered by a variety of things, such as the desire to change the world, help people, or to stand out or succeed in work. But other factors can be involved, at least at the beginning, like having a good time, going on an adventure, learning a language, meeting other people and networking. We should keep in mind that the most difficult step is always the first one.
That is why, when designing curricula and university courses, we should take into account the reasons that stimulate people's intrinsic motivation. Skills, first of all: the feeling that I can really do something. The second is the relationship with a discipline: how it relates to me, to my expectations or to those of society, to my projects. And, finally, autonomy: being able to do things yourself makes you strong, empowers you, helps you learn better”.
Redesigning university courses and the way in which they are taught, however, is not easy...
“You are right. It takes time, energy, a lot of resources. The challenge is to adapt and reshape without cutting the content. And designing one course is not enough: we must consider the entire programme of study, what we call the ‘user journey’, the experience that students are offered throughout their stay at the university. It starts even before they enrol, when they are exploring their options, and continues to the entire university experience to include the time when they have to choose what to do next. Some want to stay and continue their studies at the university or do research or head towards the world of work. We should even consider those who decide to go back to the university to learn new skills years after they have left”.
In your opinion, from your point of view, what are the strengths of the University of Trento to attract students from Italy and other countries?
“Small is nice, I'd say. The city is surrounded by thriving nature and is full of history, it is quiet and safe. It is such an innovative, dynamic university, with excellent facilities and services, a lot of well-resourced international mobility programmes... I think it is important, as for all other universities, to identify the target segment of students you want to attract. Those students are not looking for the big city, but would like to find a place where they can experiment, build new relationships, have a high quality of life or go abroad and really get involved. You should understand your potential, including your weaknesses. And make them an advantage”.