©Adobe Stock

Internazionale

Il diritto in guerra

Conversazione con Giuseppe Nesi, professore alla Facoltà di Giurisprudenza e alla School of International Studies

1 ottobre 2024
Versione stampabile
di Daniele Santuliana
Ufficio Stampa e Relazioni esterne

La guerra in Ucraina, quella in Palestina e ora anche in Libano, i tanti conflitti dimenticati nel mondo: gli scenari di crisi si moltiplicano con conseguenze gravissime sulla vita di milioni di persone. Ma la prima vittima di queste crisi è proprio il diritto internazionale umanitario, vale a dire l’insieme di norme pensate – e concordate – per proteggere la popolazione civile dagli effetti più catastrofici di un conflitto armato. Ne parliamo con Giuseppe Nesi, ordinario di Diritto internazionale alla Facoltà di Giurisprudenza e alla School of International Studies dell’Università di Trento.

Professor Nesi, partiamo dall’attualità. Le operazioni in Libano condotte con l’uso di cercapersone e walkie talkie – dispositivi di uso anche civile – sembrano aprire scenari nuovi nelle modalità di conflitto. Cosa dice il diritto internazionale su azioni di questo tipo? Qual è il limite per considerare legittima un’azione militare?

«Diciamo innanzitutto che a disciplinare i conflitti armati, soprattutto per quanto riguarda la protezione della popolazione civile, è il diritto internazionale umanitario. Con la Convenzione di Ginevra del ’49 e con i successivi protocolli aggiuntivi, si sono poste le regole fondamentali, e per lo più condivise da tutti gli Stati, per la condotta delle ostilità. Non c’è dubbio che in questo momento il diritto internazionale umanitario sia troppo spesso violato dagli stessi Stati che lo hanno voluto e che hanno contribuito a scriverlo. Per quanto riguarda quello che è successo in Libano, è opportuno specificare che nessuno ha rivendicato la paternità dell’azione, anche se tutti la imputano ai servizi segreti israeliani. Anzi, il presidente israeliano Herzog ha parlato di “atti criminali”. Dal punto di vista del diritto internazionale, è lecito attaccare i combattenti, ma di certo non lo è usare strumenti che non siano in grado di distinguere tra i combattenti e la popolazione civile, come pare sia successo in questo caso».

Tra pochi giorni, ricorrerà l’anniversario dell’attentato di Hamas in Israele. Poche settimane dopo, partiva la lunga e sanguinosa operazione militare nella Striscia di Gaza. Quello a cui abbiamo assistito negli ultimi 12 mesi è l’ennesimo capitolo di un conflitto pluridecennale, oppure è qualcosa di nuovo e diverso?

«Possiamo dire che è un’ulteriore tappa di un conflitto di lunga data. Dobbiamo sottolineare, però, che la reazione di Israele trae origine da fatti di gravità inaudita, essi stessi un’enorme violazione del diritto internazionale. Questi atti terroristici ingiustificabili, però, a loro volta non giustificano quello che è successo dopo a Gaza. Lo Stato di Israele, potenza occupante nella Striscia di Gaza secondo il diritto internazionale, ha infatti delle responsabilità su quel territorio proprio alla luce delle Convenzioni di Ginevra e più in generale del diritto internazionale. Ci troviamo quindi di fronte a una nuova fase del conflitto, che si è sviluppata però in condizioni diverse dalle precedenti. Oltre alle questioni strettamente militari, voglio però ricordare anche le dichiarazioni inaccettabili di Netanyahu e di alcuni suoi ministri, che di certo non hanno contribuito a distendere il clima. È importante invece che il Segretario generale delle Nazioni unite, António Guterres, e il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, abbiano ribadito più di recente davanti al mondo all’apertura della sessione dell’Assemblea generale che l’unica strada possibile sia quella dei due Stati».

In Medio Oriente, così come in Ucraina, l’obiettivo delle operazioni militari è quello di indebolire o distruggere la capacità di offesa, anche in termini di persone. In che modo il diritto internazionale, il diritto dei conflitti armati, distingue tra combattenti e non combattenti? Qual è la linea di demarcazione?

«In astratto, la linea di demarcazione è molto chiara: combattente è chi partecipa alle ostilità; non combattente è la popolazione civile. Obiettivi militari sono quei beni che per la loro natura, l’uso, la collocazione o lo scopo contribuiscono in modo effettivo allo sforzo bellico. Ci sono però molte situazioni ambigue, ad esempio quando beni civili – scuole, chiese, ospedali – vengono usati in modo non conforme al diritto internazionale per proteggere o nascondere i combattenti. Questo rischia naturalmente di rendere obiettivi militari anche quelle infrastrutture e la popolazione civile. Sta a chi combatte la responsabilità di evitare di creare situazioni ambigue».

Guardando all’Ucraina, nei mesi scorsi il governo di Kiev ha abbassato da 27 a 25 anni l’età per la coscrizione obbligatoria. Cosa dice il diritto internazionale in questo caso? L’obiezione di coscienza è contemplata in tempo di guerra?

«Il diritto internazionale non disciplina l’obiezione di coscienza, ogni ordinamento nazionale ha le proprie norme in relazione all’obiezione di coscienza e alla renitenza alla leva. I principi democratici, i principi di tutela dei diritti umani, imporrebbero di tenere conto della volontà dei singoli. Purtroppo, la guerra travalica però a volte la tutela di alcuni diritti fondamentali, tra questi quello di non combattere per ragioni di coscienza. A qualcuno questo sembra comprensibile, per altri non è accettabile. Io tendo a considerare molto seriamente l'obiezione di coscienza, perché credo sia l’occasione per manifestare con chiarezza la propria posizione rispetto alla guerra».

Di fronte a queste crisi, l’Onu sembra impotente. Le sue risoluzioni cadono nel vuoto e non hanno conseguenze. Qual è il futuro di questo organismo?

«L'Onu non è altro che l'insieme della volontà degli Stati che ne fanno parte. L’Onu ha commesso sicuramente molti errori. C’è una cosa però che nessuno può contestare, neanche i più aspri critici: che l'Onu, e in particolare l'Assemblea generale, sia luogo, davvero unico, dove 193 Stati – alcuni in guerra tra loro – possono incontrarsi, parlare e provare a trovare soluzioni alle controversie e ai conflitti. C’è poi un dato da menzionare quando si parla di inefficienza: il bilancio ordinario delle Nazioni unite, quindi a esclusione delle operazioni di peacekeeping, è di 3,5 miliardi di dollari. Quello del solo Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti è di 750 miliardi. E si parla di un singolo Stato. Se tutte queste risorse fossero destinate non dico alla pace, ma semplicemente allo sviluppo economico, sicuramente ci sarebbero meno guerre e meno violazioni del diritto internazionale».