La vittoria così netta del partito Repubblicano e la conferma, per un secondo mandato, di Donald Trump alla Casa Bianca, sono state inaspettate per chi studia la politica americana. La corsa partita soltanto a luglio della sfidante Kamala Harris non è bastata ai democratici. Una sensazione, quella di stupore, che viene confermata, in questa intervista, anche da Umberto Tulli, docente di Storia contemporanea alla Scuola di Studi internazionali, afferente anche al Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Trento. Queste elezioni sono state seguite con interesse anche dagli studenti e dalle studentesse del nostro ateneo. Un momento di confronto è stato organizzato il giorno dopo le elezioni al Dipartimento di Sociologia e Ricerca sociale e altri ne seguiranno nelle prossime settimane.
Professor Tulli, come commentare il risultato di queste elezioni?
«Si è trattato di una vittoria di Trump ben al di sopra di ogni previsione. Partiva probabilmente favorito e avvantaggiato, ma non in tutti e sette gli swing states (cioè gli stati contesi) e nessuno aveva predetto così tanto scarto nel voto popolare».
Secondo lei, queste votazioni sono state diverse dalle precedenti e cosa ha spinto gli elettori e le elettrici a votare per Trump?
«Un elemento che sorprende è che tutti i commentatori e tutti gli osservatori pensavano che il bacino elettorale pro-Trump non potesse crescere. L'elettorato repubblicano è per lo più formato da persone bianche, con tassi di istruzione mediamente bassi e con redditi alti. E bene o male ci si aspettava che sarebbero stati i numeri di sempre. E si pensava che il voto afroamericano, quello delle donne e dei giovani e di parte della comunità ispanica sarebbero andati al Partito Democratico. Così non è stato. Forse è il dato più sorprendente».
Però è anche una contraddizione, considerando la politica trumpiana contro l’immigrazione.
«In realtà, le costruzioni di etnicità nascondono al loro interno miriadi di diversità e di sfaccettature. Facciamo l'esempio della comunità latina. Tendenzialmente la popolazione di origine cubana della Florida sostiene i repubblicani. E anche questa volta è stato così. Quelli inaspettati sono i dati del Nevada, dove c'è una comunità ispanica molto numerosa e diversificata per provenienza. Era uno degli stati dove Kamala Harris avrebbe potuto vincere ma è andata diversamente».
Tra i temi dominanti nella campagna elettorale ci sono stati l’immigrazione, l'economia, i diritti civili. L'esito di questo voto cosa ci dice della popolazione americana?
«Non credo che la questione dei diritti civili, soprattutto del diritto delle donne all’aborto, sia stata così importante. Era un cavallo di battaglia di Kamala Harris e del Partito democratico ma non sembra che abbia convinto così tanto gli elettori e le elettrici. E i giovani a quanto pare, non sono andati a votare. La loro partecipazione doveva essere una delle forze trainanti per Harris e invece sembra essere ben al di sotto delle aspettative. Così come il voto delle donne. Secondo me è una reazione per una politica di Biden che è stata percepita meno progressista e meno di sinistra di quanto non sia stata realmente. Tutto sommato Biden ha rafforzato la sanità pubblica, ha investito in nuove tecnologie con un basso impatto ambientale, si è impegnato per ridurre i debiti degli studenti universitari. Probabilmente c'è una sfiducia generale verso la politica».
Torniamo agli altri temi della campagna elettorale.
«Due temi economici secondo me sono stati centrali. Il primo è l'inflazione, da qualche tempo tornata sotto controllo. Ma il ricordo di un'inflazione alta fino a un anno e mezzo fa credo che abbia spostato davvero molti voti. Così come la volontà di protezionismo, di reindustrializzazione, che era un tema che in parte stava anche nella proposta politica di Kamala Harris, ma che Trump ha cavalcato molto di più».
C’è poi il tema legato alle guerre, in Ucraina e a Gaza in primis. Abbiamo ascoltato già grandi proclami da parte di Trump che si dice capace di mettere fine a tutti i conflitti. Ma a che prezzo e come?
«Probabilmente buona parte del voto in alcuni Stati ha avuto a che fare con la tragedia a Gaza. Il New York Times ha riportato il giorno dopo il voto una serie di interviste a cittadini americani di origine araba che hanno detto di non essere andate a votare perché non c'era nessuna differenza tra Harris e Trump. Per loro la cosa più importante era interrompere o contenere l'escalation di violenza a Gaza e non hanno trovato un impegno da parte di nessuno dei due in questo senso. Ho l'impressione che entrambi stiano cercando una sorta di disimpegno statunitense da tutto il contesto medio orientale. Venendo all’Ucraina Trump aveva già dimostrato una capacità di dialogare con Putin. Questo fa pensare che è possibile intavolare una discussione tra Russia e Stati Uniti a scapito però delle richieste dell'Ucraina».
La sua elezione, lo abbiamo visto in passato, può alimentare un rafforzamento politico di forze populiste, antisistema, critiche dell'integrazione europea, di nazionalismo spinto. Possono esserci riflessi in Italia?
«Non credo che ci sia un impatto del voto americano sull'Italia».
Sono note le posizioni negazioniste di Trump rispetto ai cambiamenti climatici, nonostante gli allarmi della comunità scientifica. Quattro anni sono sufficienti per vanificare gli sforzi fatti finora per frenare il surriscaldamento globale?
«Una cosa probabile è che tutti gli executive orders e tutte le norme attuative approvate dall'amministrazione Biden vengano smantellate. Il che vuol dire che le misure per contrastare e contenere il cambiamento climatico verranno rimesse in discussione subito. Lo ha detto anche in campagna elettorale che bisogna rafforzare l'industria americana senza farsi condizionare troppo dall'impatto ambientale. Quindi sì, è possibile fare dei cambiamenti in così pochi anni. Ma non è possibile stravolgere il mondo. Almeno si spera».