Su Nature – Scientific Reports è stato recentemente pubblicato uno studio sull’autismo che potrebbe avere interessanti sviluppi per lo screening precoce di questa patologia. Ne abbiamo parlato con Orsola Rosa Salva, una giovane ricercatrice del Centro Interdipartimentale Mente/Cervello (CIMeC) dell’Università di Trento, che fa parte del gruppo di ricercatori autori dell’articolo.
Quali sono le basi di questa ricerca e che cosa teorizza?
La ricerca prende spunto dall’interesse scientifico per le predisposizioni sociali. Si tratta di meccanismi che portano gli organismi neonati a prestare fin dalla nascita un’attenzione preferenziale a stimoli che hanno alcune caratteristiche tipiche degli esseri viventi, come la presenza di un volto o alcuni tipi di movimento “biologico”. In ricerche precedenti avevamo riscontrato queste predisposizioni sia in bambini appena nati che in modelli animali privi di esperienza visiva, come pulcini domestici schiusi in completa oscurità. È stato teorizzato che uno dei meccanismi che porta allo sviluppo dei disturbi dello spettro autistico possa essere proprio un’anomalia in queste predisposizioni per osservare volti o movimento biologico fin dalla nascita. Tuttavia, le patologie dello spettro autistico non vengono diagnosticate in modo definitivo prima dei due-tre anni, anche se alcune anomalie nello sviluppo sociale sono presenti già da età più precoci. Questo fa sì che vengano perse preziose possibilità di riabilitazione precoce e rende difficile verificare se le predisposizioni sociali siano in effetti compromesse alla nascita. Lo scopo della nostra ricerca era proprio di colmare, almeno in parte, queste lacune.
Quali soggetti sono stati coinvolti e in cosa è consistito il vostro studio?
Lo studio si basa sull’osservazione di bambini provenienti da una popolazione a rischio di sviluppare disturbi dello spettro autistico, cioè bambini che hanno un fratello o una sorella maggiore già diagnosticati per tali patologie e hanno quindi maggiori probabilità di sviluppare tale disturbo rispetto alla popolazione generale. Inoltre sono stati coinvolti anche bambini “di controllo”, provenienti da una popolazione a basso rischio (che non avevano parenti stretti affetti dalla patologia). Entrambi i gruppi di bambini, poco dopo la nascita hanno partecipato a identiche osservazioni comportamentali nelle quali venivano loro proposte due immagini da osservare liberamente, ad esempio un volto e un volto rovesciato a testa in giù, rilevando quanto a lungo ciascuna immagine veniva guardata. In questo modo è stato possibile verificare se i bambini dei due gruppi prestassero uguale attenzione agli stimoli sociali o agli stimoli di confronto.
Il vostro team di ricerca in quale contesto si inserisce e quali collaborazioni avete?
Il team di ricerca, diretto da Giorgio Vallortigara e composto da Elisa Di Giorgio e da me, fa parte del network italiano per il riconoscimento precoce dei disturbi dello spettro autistico (NIDA), coordinato da Maria Luisa Scattoni dell’Istituto Superiore di Sanità di Roma. Il nostro studio, infatti, è parte di una ricerca più ampia svolta dalle varie unità che compongono il NIDA e che investigano anche la presenza di altre possibili anomalie comportamentali nei bambini a rischio (ad esempio anomalie nel pianto o nel movimento spontaneo). Inoltre in questo studio è stata coinvolta anche Francesca Simion dell’Università di Padova, specializzata da decenni nello studio del comportamento dei neonati.
A quali risultati siete pervenuti e quali prospettive si aprono dal vostro studio?
Lo studio ha rilevato che, in confronto al gruppo a basso rischio, i neonati del gruppo ad alto rischio erano in proporzione meno propensi ad osservare gli stimoli sociali (l’immagine di un volto e un movimento di tipo biologico, come quello di un animale che cammina) e più propensi ad osservare gli stimoli non sociali (l’immagine del volto capovolto e un movimento casuale). Questo supporta l’ipotesi che un’anomalia delle predisposizioni sociali presenti tipicamente nei neonati possa essere coinvolta nello sviluppo delle patologie come l’autismo. Anche se i risultati sono molto promettenti e accrescono la nostra comprensione di questo disturbo, prima che possano avere una rilevanza pratica, ad esempio per il riconoscimento precoce dei bambini a rischio, è necessario che i risultati vengano confermati in una popolazione più ampia di bambini a rischio. Inoltre, è necessario verificare se ci sia una relazione a livello individuale tra il comportamento dei singoli bambini nelle nostre prove e l’eventuale successivo sviluppo della patologia. Infatti, fortunatamente, di solito solo una certa percentuale dei bambini a rischio viene poi diagnosticata con una patologia conclamata. È quindi necessario verificare se la mancata attenzione verso gli stimoli sociali osservata alla nascita predica quali bambini andranno, purtroppo, a sviluppare un disturbo dello spettro autistico raggiunta l’età della diagnosi.
Un risultato positivo quindi che apre alla speranza di una maggior comprensione dell’autismo alle famiglie che vivono quotidianamente questa patologia. La ricerca continuerà, in quale direzione?
Sì, stiamo attualmente lavorando per raccogliere dati da un maggior numero di bambini ad alto e a basso rischio e stiamo seguendo lo sviluppo dell’attenzione sociale di questi bambini, riproponendo loro le medesime osservazioni quando raggiungono il quarto mese d’età. Infine, i bambini che hanno partecipato alla ricerca sono seguiti regolarmente dai centri clinici che fanno parte del NIDA per garantire una rilevazione il più precoce possibile di eventuali atipicità del loro sviluppo. Questo consentirà anche, nel lungo periodo, di verificare se il livello di attenzione sociale osservata nelle nostre prove, predice quali bambini andranno effettivamente a sviluppare un disturbo dello spettro autistico.