Medici che vanno in burnout, familiari schiacciati dal senso di colpa. Decidere sul fine vita altrui, può mettere a dura prova l’equilibrio psicologico. A volte accade anche in presenza del cosiddetto testamento biologico. Carlo Casonato, responsabile scientifico del progetto interdisciplinare BioDiritto dell’Università di Trento, fa il punto sul percorso compiuto e sulla strada ancora da fare a cinque anni dall’entrata in vigore della legge 219/2017 sulle norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento (Dat) e a 13 anni dalla 38/2010 sulle disposizioni per garantire l'accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore.
Professor Casonato, le disposizioni anticipate di trattamento cosa riguardano?
«Con le Dat si esprimono rifiuto o consenso a determinati accertamenti diagnostici, scelte terapeutiche e singoli trattamenti sanitari (incluse ventilazione meccanica e nutrizione e idratazione artificiali). Qualsiasi persona maggiorenne e capace di intendere e di volere può indicare sue disposizioni in previsione di uno stato di incapacità, dopo aver acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte».
Qual è l’iter?
«Per la stesura è bene farsi aiutare dal proprio medico di fiducia così da poter anche ricevere le informazioni sanitarie necessarie per scegliere i trattamenti che si intende accettare o rifiutare. Possono essere depositate gratuitamente all'Ufficio di stato civile del Comune di residenza o presso le strutture sanitarie competenti. Vengono quindi trasmesse alla Banca dati nazionale delle Dat istituita dal Ministero della salute e, nelle regioni dove c’è interoperabilità, emergono dal fascicolo sanitario elettronico».
Le disposizioni vengono poi rispettate alla lettera o c’è margine di interpretazione quando la persona che le ha espresse diventa incapace di autodeterminazione?
«Le Dat sono uno strumento importante, che permette per chi vuole di anticipare la propria volontà in previsione di non poterla un giorno più esprimere. Il problema è che le Dat vengono scritte quando si sta bene e non si ha la minima idea di ciò che potrà accadere. Sono un salto al buio. Hanno lo svantaggio di non essere contestualizzate. Se l’equipe medica è convinta che non corrispondano alla situazione clinica che poi si è verificata o che ci siano terapie non prevedibili al momento della loro redazione, possono quindi essere disattese».
Ad esempio?
«Di recente in Germania c’è stato il caso di una donna che aveva chiesto di non essere rianimata. Poiché, però, al momento in cui era diventata incapace di autodeterminazione era incinta, l’equipe medica ha deciso di confrontarsi con il partner sul da farsi e alla fine si è deciso di tenere la donna in vita fino a quando fosse necessario per far nascere il bimbo. Si è ritenuto che, in presenza della gravidanza, fosse quella la volontà attuale della donna».
Cosa può favorire il maggior rispetto possibile delle Dat?
«Occorre evitare che le disposizioni anticipate di trattamento siano troppo generiche. Fondamentale è che siano espresse dopo aver acquisito adeguate informazioni mediche altrimenti potrebbero essere ritenute una sorta di consenso non informato. Poi si può indicare un fiduciario, una persona che sarà chiamata a rappresentare chi ha lasciato le Dat nelle relazioni con il medico e con le strutture sanitarie in caso di dubbio o di controversia».
Spesso si trascura la pianificazione condivisa delle cure. Cos’è?
«La pianificazione condivisa delle cure, introdotta sempre dalla stessa legge delle Dat (219/2017), prevede che venga realizzata una pianificazione delle cure condivisa tra il paziente e il medico, alla quale il medico e l'equipe sanitaria sono tenuti ad attenersi qualora il paziente venga a trovarsi nella condizione di non poter esprimere il proprio consenso».
Quali vantaggi ha rispetto alle Dat?
«La Pcc non ha difetto di contestualizzazione perché viene elaborata quando la persona è già malata e quindi non soffre del possibile margine di incertezza delle Dat. Se consideriamo che solo due morti su dieci sono improvvise e che tutte le altre sono la conseguenza di un percorso di malattia, si comprende come la pianificazione condivisa delle cure sia uno strumento molto utile e adeguato per individuare i trattamenti a cui la persona vuole o non vuole essere sottoposta. Purtroppo però si fa ancora troppa poca informazione su questo e la Pcc non è sempre proposta all’esordio di una malattia grave».
E l'accesso alle cure palliative e alla terapia del dolore oggi in Italia è garantito?
«Molti ostacoli di carattere culturale sono stati superati. Tante resistenze erano legate soprattutto alle paure sull’uso della morfina nella terapia del dolore. C’è però ancora tanta strada da fare per passare dall’idea che la cura sia solo guarigione a quella che invece la cura è anche togliere il dolore e accompagnamento a una morte dignitosa. Anche qui, c’è una legge importante (38/2010) che dovrebbe essere applicata più diffusamente».
Chi dovrebbe proporre la terapia del dolore?
«Dovrebbe essere proposta dall’equipe medica a tutte le persone che hanno dolore. La palliazione anche profonda dovrebbe poi essere applicata a chi è sofferente e in condizioni di vita terminale. Una pianificazione che comprenda anche un adeguato trattamento del dolore dovrebbe essere proposta alle persone che presentano i primi sintomi di una malattia neurodegenerativa, come ad esempio l’Alzheimer, perché, chi ne è colpito, possa essere informato sulle sue prospettive di vita e perché possa pianificare in modo consapevole le proprie scelte».
Ma non sempre accade...
«Il diritto questa volta ha fatto il suo dovere: ha dato gli strumenti per garantire una morte dignitosa. E il codice deontologico di medici e quello degli infermieri hanno preceduto il diritto e da sempre impongono di prendersi cura della persona malata e di ascoltarla. Quello che manca ancora è l’informazione e l’applicazione concreta. Per questo sono state fatte molte raccomandazioni, anche da parte del Comitato Nazionale per la Bioetica, di curare la formazione del personale medico e infermieristico sulla palliazione, la terapia del dolore, il rispetto della volontà della persona malata. Anche in Trentino siamo impegnati a tenere molti corsi di aggiornamento professionale, ma la strada per una completa affermazione dei principi di una morte dignitosa non è certo conclusa».