Nelle scritte per strada come nelle notizie del giorno, si parla molto del 41-bis. Ma come nasce, cosa prevede, a chi si applica questo particolare regime carcerario? Antonia Menghini, professoressa associata di diritto penale e, dall’ottobre 2017, anche garante provinciale dei diritti dei detenuti, ne chiarisce innanzitutto le origini: «Nel 1986, con la legge Gozzini, si introduce una norma che prevede, per la durata strettamente necessaria a ripristinare l’ordine e la sicurezza, che, in casi eccezionali di rivolta o di altre gravi situazioni di emergenza, il Ministro della giustizia abbia facoltà di sospendere l'applicazione delle normali regole di trattamento. Di lì a qualche anno, nel 1992, il legislatore ha poi disciplinato il cosiddetto carcere duro, un regime speciale di rigore funzionale alla tutela della sicurezza pubblica o esterna, sempre che sussistano elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un’associazione criminale, terroristica o eversiva». Menghini ricorda: «Il regime del carcere duro è stato adottato subito dopo la strage di Capaci con d.l., convertito in legge dopo la successiva strage di via D’Amelio. Strumento per eccellenza di contrasto alla criminalità di stampo mafioso, esso è funzionale a esigenze di sicurezza pubblica e dunque al contenimento di una pericolosità particolarmente spiccata. La finalità dell’istituto è impedire il collegamento con i gruppi criminali di afferenza sul territorio».
Professoressa Menghini, in Italia sono una dozzina le strutture carcerarie dove vengono detenute persone in regime di 41-bis. Quali sono i numeri e la tipologia di reato di questa componente della popolazione carceraria?
«I destinatari rimangono per la massima parte detenuti per gravi delitti di stampo mafioso. Debbono comunque sussistere elementi tali da far ritenere la sussistenza di collegamenti con un'associazione criminale, terroristica o eversiva. Dalla Relazione del Ministero sull’amministrazione della giustizia 2022, aggiornata al 31 ottobre 2022, risultano 728 persone al 41 bis, di cui 241 affiliate alla camorra, 195 all’‘ndrangheta, 232 a cosa nostra, 20 alla sacra corona unita, 3 alla stidda, 32 ad altre mafie e 4 per terrorismo interno/internazionale. Emerge, inoltre, che nel 2022 le proroghe sono state 84, le scarcerazioni 26, le nuove applicazioni 16 e 5 le riapplicazioni. Inoltre il regime è venuto meno in 5 casi per mancato rinnovo del decreto ministeriale, in 4 per accoglimento reclamo dal Tribunale di sorveglianza di Roma e in 2 per inizio di collaborazione con la giustizia».
Cosa prevede il 41-bis in termini di limitazioni alla libertà delle persone detenute?
«Il regime del carcere duro implica la sospensione dell'applicazione delle regole di trattamento e degli istituti previsti dalla legge sull’ordinamento penitenziario e comporta, dunque, ricadute negative sui diritti delle persone detenute. Di fatto i detenuti si ritrovano a trascorrere in cella, secondo la prassi adottata dall’amministrazione penitenziaria, 22 ore al giorno (esclusa l’ora d’aria e quella per la socialità). Ne esce particolarmente frustrata anche l’istanza rieducativa. Risultano fortemente ridotti i colloqui visivi (uno al mese), che possono essere solo con familiari e conviventi e che avvengono con vetro divisorio e sono videoregistrati. Solo dopo i primi sei mesi di applicazione del regime, si può fare un colloquio telefonico mensile con i familiari e conviventi della durata massima di dieci minuti sottoposto, comunque, a registrazione, ma solo nel caso di mancato colloquio de visu. Rispetto ai colloqui con i difensori la Corte costituzionale ha dichiarato l’incostituzionalità della previsione che li limitava a tre a settimana e, più di recente, ha dichiarato incostituzionale anche il visto di controllo sulla corrispondenza tra detenuti e difensori. Sussistono infine limitazioni anche per le somme, i beni e gli oggetti che possono essere ricevuti dall’esterno e per la permanenza all’aperto che non può svolgersi in gruppi superiori a quattro persone. La custodia è affidata a un nucleo specializzato di polizia penitenziaria (c.d. Gruppo operativo mobile)».
A chi spetta la decisione di sottoporre una persona al regime di carcere duro e in base a quali aspetti ne viene definita la durata?
«Ad adottare il provvedimento dispositivo del regime di carcere duro è il Ministro di Giustizia. La durata è per legge pari a 4 anni, prorogabile poi di due anni in due anni. È possibile ricorrere al Tribunale di Sorveglianza di Roma avverso il decreto dispositivo e il decreto di proroga. Certamente auspicabile, a questo riguardo, sarebbe un trasferimento di competenza in capo alla magistratura quanto alla sua applicazione».
Il regime può essere sospeso o revocato prima della scadenza fissata nel decreto ministeriale?
«Una riforma del 2009 ha abrogato il comma che prevedeva la facoltà di fare istanza di revoca anticipata. Ciononostante è di tutta evidenza che il venir meno dei presupposti per la disposizione del regime deve comportare anche oggi la revoca del provvedimento anche prima della scadenza dei 4 o 2 anni (in caso di proroga). Peraltro, a fronte della revoca del provvedimento da parte del Tribunale di Sorveglianza di Roma, il Ministro di Giustizia può comunque, alla luce di nuovi elementi, disporre nuovamente il regime».
Ci sono delle restrizioni del carcere duro, oltre a quelle già citate relative ai rapporti con i difensori, che sono risultate incostituzionali?
«La Corte costituzionale ha dichiarato incostituzionali alcune restrizioni perché ritenute non congrue rispetto alle esigenze di ordine e sicurezza pubblica e a quella di impedire i collegamenti con le associazioni criminali di riferimento. È quanto accaduto con il divieto di cuocere cibi e con il divieto di scambio di oggetti tra partecipanti allo stesso gruppo di socialità».
Come si concilia il 41-bis con la piena attuazione dell’articolo 27 della Costituzione italiana che afferma la necessità di rieducazione delle persone condannate?
«La Consulta ha affermato che neppure con riferimento al carcere duro il diritto alla rieducazione possa essere sacrificato. Ciononostante, l’offerta di programmi e attività rieducative per le persone detenute appare fortemente ridotta se non del tutto assente».
Quale iter legislativo sarebbe necessario per rivedere questo regime carcerario?
«Nessun iter specifico. Si tratta piuttosto di trovare il punto d’equilibrio tra esigenze di sicurezza pubblica, che nessuno contesta, e la dignità delle persone detenute cui deve essere comunque riconosciuto il diritto alla rieducazione e assicurata l’applicazione delle fondamentali garanzie costituzionali che sotto alcuni aspetti ancora non trovano piena attuazione. Metro per giudicare la legittimità di una previsione normativa non può infatti essere solo quello dell’efficacia».