Lavoro, istruzione, famiglia: ruotano intorno a queste tre parole chiave le indagini che la docente di Harvard, recente vincitrice del premio Nobel per l’Economia, ha condotto sulla partecipazione delle donne al mercato del lavoro e sulle loro retribuzioni negli ultimi 200 anni negli Stati Uniti. Goldin ha dimostrato che la presenza femminile nel mondo del lavoro è aumentata quando sono intervenuti alcuni cambiamenti strutturali – ad esempio, l’espansione del lavoro d’ufficio o i cambiamenti tecnologici che hanno modificato la natura del lavoro e la possibilità di controllo delle nascite – e parallelamente si sono verificati importanti mutamenti culturali riguardo il rapporto famiglia-lavoro, ad esempio cambiamenti nelle aspirazioni delle donne. Ne parliamo con due docenti del Dipartimento di Economia e Management: Gabriella Berloffa, economista del lavoro e Cinzia Lorandini, storica economica.
Partiamo con una domanda che forse sembra una provocazione: c’è da festeggiare se il gender gap vince il Nobel?
Berloffa: «Secondo me era ora che venisse riconosciuta questa problematica come qualcosa di cui gli economisti, sia uomini che donne, si devono occupare. Un tema centrale che serve per capire l’economia nel suo complesso. Il premio è un bellissimo segnale in questa direzione. È significativo inoltre che per la prima volta sia stato vinto da una donna da sola. L’auspicio è che in futuro più uomini si interessino di queste tematiche».
Lorandini: «Condivido il pensiero della collega. Certo gli ostacoli sono ancora molti. Il problema delle differenze di genere sia in termini di partecipazione al mercato del lavoro che in termini di divari retributivi persiste. Questo Nobel sancisce il riconoscimento dell’importanza di indagare le cause di queste problematiche e la rilevanza del fenomeno, alla luce del ruolo decisivo che ha la parità di genere nel mercato del lavoro dal punto di vista della crescita e dello sviluppo economico e sociale. Ed è uno stimolo a proseguire in questo ambito».
C’è un dato rappresentativo di qual è il contributo delle donne al Pil del nostro paese? Quanto si guadagnerebbe in termini di crescita e di sviluppo se aumentasse la partecipazione femminile al mondo del lavoro?
Berloffa: «Secondo una recente pubblicazione della Banca d’Italia, se la partecipazione femminile in Italia, che oggi è al 56,5 per cento nella fascia 15-64 anni, arrivasse più vicina a quella europea che è al 67 per cento, il nostro Pil aumenterebbe del 10 per cento. Questa è una stima per difetto, che non tiene conto del fatto che avere più donne occupate comporterebbe una riallocazione dei talenti, cioè un uso più efficiente delle risorse complessive. Il grosso problema dell’Italia è che siccome una donna su due non lavora c’è una grande fetta di popolazione che potrebbe contribuire e non lo fa, e dall’altra parte chi lavora può essere destinato a lavori che non sfruttano adeguatamente doti e specializzazioni. Va comunque sottolineato che anche il lavoro non retribuito delle donne produce valore. L'Istat ha stimato che, nel 2014, il valore in termini monetari della produzione familiare, ossia lavoro non retribuito, era intorno ai 557 miliardi di euro (pari al 34 per cento del Pil di quell’anno) e tale produzione era svolta per il 71% dalle donne».
Lo studio di Goldin ha fotografato la situazione dell’epoca, analizzando le cause e ripercorrendo la storia dell’emancipazione femminile: dalla pillola anticoncezionale, alla questione dell’utilizzo del cognome del marito, all’accesso all’istruzione per le donne. Ma il “soffitto di cristallo” e altri fattori che impediscono una totale parità di diritti fra uomini e donne sul lavoro esistono ancora. Quali sono i principali ostacoli oggi al raggiungimento di una maggiore parità di genere?
Berloffa: «Credo che il ‘soffitto di cristallo’ sia solo una parte, ancorché importante, della storia e che il problema maggiore, almeno per l’Italia, riguardi la ridotta partecipazione delle donne al mercato del lavoro soprattutto nella fascia con istruzione medio-bassa e la necessità di una redistribuzione del lavoro non retribuito nelle coppie che porti le donne ad uscire dal part-time e ad avere minori interruzioni di carriera. Come dice Goldin, le cause del gender gap sono di diversa natura, interagiscono e possono essere diverse nel tempo. Da un lato lei stessa sottolinea l’importanza di quelle trasformazioni strutturali e tecnologiche che hanno aumentato la domanda di lavoro per le donne e la necessità di un’organizzazione del lavoro nelle imprese che renda meno costosa la flessibilità. Dall’altra parte c’è tutto il tema dei servizi e della condivisione del lavoro di cura. Agire su questi fattori è particolarmente importante non solo per migliorare la situazione attuale ma perché quest’ultima incide sulle aspirazioni delle giovani donne. Esistono dei vincoli che queste ultime percepiscono e che condizionano le loro aspirazioni e le loro scelte, che possono essere rappresentati anche dai modelli familiari in cui hanno vissuto e dalle difficoltà che hanno visto vivere dalle loro madri. Secondo alcuni studi che avevamo condotto qualche anno fa la probabilità di essere occupata per una ragazza sui 30 anni è del 30 per cento maggiore se la madre, quando lei aveva 14 anni, era occupata rispetto alle coetanee che avevano la mamma fuori dal mercato del lavoro. Il cambiamento e gli effetti delle politiche possono essere perciò anche molto dilazionati nel tempo».
Lorandini: «La lentezza dei cambiamenti dovuta ai condizionamenti tra le diverse coorti fa pensare al problema della “path dependence” (teoria secondo la quale piccoli eventi passati, anche se non più rilevanti, possono avere conseguenze significative in tempi successivi, ndr.) che genera questa difficoltà nei cambiamenti a livello culturale. Modelli vissuti e che vengono riproposti dal passato possono creare dei limiti che condizionano le scelte future. Altro aspetto da considerare è che, come abbiamo visto anche nel periodo pandemico del Covid, certe conquiste possono fare dei passi indietro. In quel contesto, la flessibilità del lavoro favorita dalle tecnologie si è scontrata con la difficoltà per le donne di stare a casa conciliando il lavoro con la cura della famiglia. Inoltre le donne, proprio perché maggiormente impiegate nel settore dei servizi, sono state più colpite dagli effetti della pandemia in termini di perdita dell’occupazione».
Quali possono essere gli strumenti per superare questi ostacoli?
Berloffa: «La cosa importante che sottolinea Goldin è che l’uguaglianza nel mercato del lavoro e quella in famiglia sono due facce della stessa medaglia, non si arriverà mai all’una senza l’altra. I fenomeni sono complessi e sono diversi a seconda dei gruppi di donne che stiamo considerando. Possono esserci strumenti per ridurre le differenze dei salari per chi già lavora o migliorarne le possibilità di carriera. E strumenti che guardano a chi è fuori dal mercato del lavoro e si pongono l’obiettivo di intervenire per agevolarne l’ingresso e l’occupazione. Ad esempio, è importante attuare interventi che promuovano la consapevolezza nei giovani, dalle scuole medie in poi, dell’importanza e del tipo di istruzione che scelgono per il loro futuro. Servono inoltre politiche che portino alla condivisione del lavoro di cura in famiglia, attraverso incentivi per gli uomini a prendersi cura dei figli, mentre le imprese devono pensare ad una riorganizzazione del lavoro e degli orari per favorire la flessibilità. A livello più generale, il problema della flessibilità suggerisce di ripensare anche i calendari di attività delle strutture scolastiche e dell’infanzia per arrivare a nuovi modelli di distribuzione dei tempi di vita e lavoro».
Gli studi di Goldin in che modo potranno incidere sulle vostre attività accademiche, di ricerca e di insegnamento?
Berloffa: «Io sto tenendo attualmente un corso di economia del lavoro e della famiglia alla triennale. Ho proposto un approfondimento sulla partecipazione femminile che sicuramente integrerò con parte delle visioni di Goldin e degli studi che, sulla base di questi stimoli, sono stati condotti in Italia e in Europa. Per quanto riguarda la mia ricerca, sicuramento seguirò l’invito ad analizzare più nel dettaglio le cause e i risvolti del gender gap per diversi gruppi di donne (ad esempio per livello di istruzione o condizione familiare) nelle diverse occupazioni. E con la collega Lorandini abbiamo già deciso che faremo delle ricerche congiunte».
Lorandini: «Da alcuni anni mi sono affacciata alla storia del lavoro da una prospettiva di genere e sto studiando come è cambiata la dimensione dell’economia familiare nel passato con un’attenzione al rapporto tra relazioni gerarchiche e distribuzione del lavoro remunerato e non all’interno della famiglia. Attualmente mi sto concentrando sul lavoro delle donne nelle filande trentine nella fase ottocentesca dell’esordio dell’industrializzazione. Dagli studi di Goldin emergono spunti interessanti e uno stimolo a raccogliere ulteriori dati per mettere in relazione l’occupazione delle donne nelle filande con le loro scelte matrimoniali e familiari, e analizzare l’effetto che può aver avuto la domanda di lavoro femminile sulle loro decisioni».